martedì 28 ottobre 2008

domani riunione al rettorato?

ma è conferamata la solita riunione di domani alle 14? magari vediamoci al rettorato così organzziamo una giornata a tema feminista. ciao veronica

giovedì 23 ottobre 2008

Un articolo di Lea Melandri

Mi sembra che questo articolo di Lea Melandri, uscito lo scorso 15 ottobre su "Liberazione", ci possa offrire qualche spunto da discutere.

«PERCHE' IL FEMMINISMO NON "SFONDA" PROPRIO ADESSO CHE POTREBBE?
Se è vero che la pacifica "rivoluzione femminista" è l'unica sopravissuta alla fine degli anni Settanta, l'unica che abbia avuto continuità in una vasta proliferazione di gruppi, associazioni, centri culturali e politici, è anche vero che è la più silenziosa, oscillante tra brevi comparse e altrettanto rapide sparizioni. Il pensiero e l'azione politica del movimento delle donne sembra aver perso estensione e radicalità proprio quando è il contesto storico in cui viviamo a richiederla. Un antidoto al populismo, al trionfo dell'antipolitica, al risveglio del fondamentalismo religioso, potrebbero essere proprio quella ‘politica della vita' che discende dalle pratiche e dai saperi degli anni Settanta.
La domanda che viene da porsi allora è questa: perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così ‘povere' pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel presente?
Faccio un passo indietro e parto da una osservazione elementare: la donna, esclusa dalle responsabilità della vita pubblica, dallo statuto stesso di "umano", identificata col corpo, la natura, la funzione sessuale e riproduttiva, è stata da sempre "oggetto" del sapere. Sono stati i saperi, oltre che i poteri, della comunità storica degli uomini a definire che cosa è "femminile", a esercitare, più o meno direttamente, sui corpi, sulla vita psichica e intellettuale delle donne, controllo, imperio, sfruttamento, violenza o, al contrario, esaltazione immaginaria. Attraverso i saperi passa la violenza manifesta di un dominio, ma anche e soprattutto quella violenza più insidiosa, perché invisibile, che è l'interiorizzazione di un'immagine di sé dettata da altri: un modo di pensarsi, di sentire, di essere, che fa propria la lingua e la visione del mondo dell'altro. Quando esclude le donne dal "contratto sociale", quando descrive l'educazione della femmina, destinata a vivere «in funzione degli uomini», «piacere e rendersi utile a loro», Rousseau, il padre della democrazia moderna, sa di poter contare sul sentire comune delle donne, un sentire fatto di adattamenti, resistenze, ma anche strategie di sopravvivenza - come il potere che viene dal rendersi indispensabili all'altro, l'uso sapiente di potenti attrattive, come la maternità e la seduzione.
Uscire da questa pesante eredità storica ha comportato, per le donne, un doppio "scarto": smascherare la falsa neutralità dei saperi creati dal sesso maschile, ma anche sradicare quella che Sibilla Aleramo, già all'inizio del ‘900, chiamava «una rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi». L'analisi che Aleramo affronterà in solitudine, attraverso un processo continuo di "svelamento" e costruzione dell'«autonomia dell'essere femminile», è diventata poi nel femminismo degli anni Settanta la "pratica dell'autocoscienza": un modo di procedere originalissimo, che tiene insieme scavo in profondità, modificazione di equilibri psichici profondi ("presa di coscienza"), e costruzione di sé come individualità che si pone per la prima volta nella sua interezza: corpo pensante, o pensiero incarnato, sessuato.
Quello che avviene negli anni Settanta, dunque, non è solo l'ingresso massiccio delle donne nella vita pubblica - lavoro extradomestico, istruzione, urbanizzazione, impegno politico, ecc. -, e neppure solo la nascita di una soggettività femminile singolare e plurale . E' una rivoluzione (pacifica) che va alle radici dell'umano, riportando alla storia quanto di umano è stato "naturalizzato", sottratto perciò a possibili cambiamenti, una ridefinizione del confine tra privato e pubblico, che sovverte l'atto fondativo stesso della politica, che interroga tutte le costruzioni storiche della civiltà dell'uomo a partire dal pensiero che le sorregge: un pensiero che si è strappato dalle sue radici biologiche e che su questa scissione originaria ha costruito tutte le dualità che conosciamo. Prima fra tutte, quella tra i ruoli del maschio e della femmina. Quella che si profila, attraverso una inedita coscienza e parola femminile, è un'idea diversa di cultura, di storia, di democrazia, di libertà, di politica. Non si tratta di un "sapere" che si aggiunge ad altri, un'iniezione vitale di conoscenza, che va ad integrare, o «fecondare la sterile civiltà dell'uomo» - secondo l'idea di complementarietà che ha accompagnato l'emancipazione di inizio Novecento -, ma di un processo formativo e cognitivo che ha osato addentrarsi nelle «acque insondate delle persona» , in una «materia segreta, imparentata con l'inconscio», e che da lì, da quelle «lande deserte», da quella "preistoria" pietrificata, ha cominciato a guardare con occhi diversi la storia, a sovvertire l'ordine esistente.
«Che cosa avverrà delle istituzioni quando si accorgeranno di essere funzionalizzate a un sesso solo?» (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1979).
E' con questa domanda che il femminismo tentò allora di costruire un proprio "lessico politico", ridefinendo parole già in uso - democrazia, uguaglianza, libertà, organizzazione, ecc. -, e introducendone delle nuove, frammenti di una teorizzazione che aveva come punto di partenza e di analisi il "sé", rivisitato attraverso la pratica dell'autocoscienza (Lessico politico delle donne, a cura di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta, 1978, ristampato da Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2002).
La cultura femminista degli anni Settanta rappresenta un eccezionale equilibrio tra un sapere inteso come processo formativo - aderenza alla memoria del corpo, all'immaginario sessuale, all'esperienza particolare di ognuna -, e, al medesimo tempo, come tensione trasformativa del mondo, quale si espresse allora nelle battaglie per il divorzio, l'aborto, il diritto di famiglia, la violenza sessuale. Si potrebbe anche dire che mobilitazioni per i diritti e pratiche di liberazione erano tra loro intersecati: non si voleva che restassero "un pezzo di riforma" isolata dalla messa in discussione della sessualità e dalla cultura dominante maschile. Quello che si stava abbozzando era un sapere che, partendo dalla costruzione di sé, si andava a collocare, con una forte conflittualità, sul confine tra sfera pubblica e privata, che si richiamava al corpo, alla sessualità, alla salute fisica e psichica, consapevole dei segni che la civiltà dell'uomo vi ha lasciato sopra. Era una sfida che le istituzioni non potevano reggere, e che perciò hanno ostacolato e in alcuni casi osteggiato.
Era, come capì lucidamente Rossana Rossanda, «una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa ma la mette in causa».

Le difficoltà che il sapere prodotto in quel decennio incontra nel riattraversare le costruzioni storiche, nascono dunque dalla radicalità dell'assunto iniziale: un soggetto politico imprevisto e anomalo, quale era la soggettività femminile, collettiva e insieme rispettosa della singolarità, una "presa di parola" che denunciava, non svantaggi o discriminazioni sociali, ma una "espropriazione di esistenza", a partire dal destino toccato alla sessualità femminile, identificata con la procreazione e quindi cancellata come tale - da cui il ruolo "naturale" di madre, la dedizione all'uomo, il sacrificio di sé. Era una affermazione di "libertà" che si poneva però come lento processo di "liberazione" dalle tante "illibertà" interiorizzate: nel vissuto amoroso, nelle relazioni famigliari, nei rapporti di lavoro, nella malattia, nella follia, nell'assuefazione alla violenza quotidiana.
Con l'autocoscienza, il processo conoscitivo si spostava in prossimità del corpo, della memoria che vi si è depositata sopra. Alle generalizzazioni della politica, opponeva il "partire da sé".
«Il blocco - scrisse Carla Lonzi - va forzato una per una, passaggio necessario per la nascita della propria individualità».
Ma questo processo, che interessa la singola, aveva bisogno di un «accostamento di vissuti di ognuna», della presenza fisica delle altre, del separatismo, cioè di relazioni tra donne fuori dallo sguardo maschile. «Il sapere sull'autocoscienza non può sostituire la formazione che avviene praticandola» (M.Fraire). La soggettività femminile nasce in questa particolare relazione tra simili e, in questo senso, l'autocoscienza non è la pratica di una fase storica, non è "a termine", come si legge nella ricostruzione che la Libreriadelle donne di Milano ha fatto di quegli anni (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, 1987). Insieme al suo portato teorico, è la forma che ha preso il discorso femminile sul corpo, sulla sessualità e che non poteva non fare i conti con la psicanalisi. La sua durata va messa in relazione col fatto che la sessualità non appartiene a questa o a quell'epoca in particolare, non è solo una componente della vita personale, ma una struttura portante della società in tutti i suoi aspetti. Sono d'accordo perciò con Manuela Fraire quando scrive che è stato «uno strumento abbandonato precocemente», e che i suoi frutti maturi sono stati in parte raccolti da certe scritture che ne conservano traccia. Il riferimento è, in particolare, al gruppo milanese "sessualità e scrittura" ("A zig zag", numero speciale, 1978), alle scritture di esperienza dei corsi delle donne (Associazione per una Libera Università di Milano), alla rivista "Lapis. Percorsi della riflessione femminile" (1987-1997).
Difficoltà e ostacoli cominciano a nascere quando il femminismo si estende fuori dai piccoli gruppi di autocoscienza, dai collettivi cittadini, e a entrare negli ambiti istituzionali della cultura e della politica, quando "dal movimento femminista" si passa al "femminismo diffuso". Se l'allargamento era augurabile, evidenti furono anche da subito i rischi che comportava: «un'operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del patrimonio prodotto dalle donne, da parte di ambiti istituzionali della politica e della cultura» (Marina Zancan).
Al convegno di Modena sugli "Studi femministi in Italia" (1987), si profilano due orientamenti: uno che vuole tutelare «spazi di autonomia e di autogestione, all'interno dell'università, attivare momento di autoriflessione sulla presenza in quel luogo, definire diversi paradigmi scientifici», «decostruire le discipline con pezzi di sapere esterni ad esse»; in altre parole, mantenere un «pendolarismo tra dentro e fuori l'Università» (Raffaella Lamberti). L'altro, proposto da Luisa Muraro, mira invece a fondare un soggetto forte, una «tradizione» di donne, che come tale ha bisogno di una «autorità» e di un «linguaggio», di un «ordine simbolico» su cui fondarsi. Nella costruzione identitaria di una «differenza femminile» con cui affrontare la vita pubblica, sparisce l'attenzione al corpo, al sé, al vissuto personale, e anche il sapere che ne discende porta i segni di una posizione essenzialistica, rassicurante e destinata ad avere molto seguito, proprio perché sembra portare fuori dalla lentezza e dalle secche delle pratiche di "liberazione".
Rispetto a queste due posizioni, la rivista "Lapis" ha rappresentato un percorso a parte, critico rispetto al "pensiero della differenza", ma anche rispetto al proliferare di "studi di genere" in ambiti accademici. L'intento che muove la redazione è quella di dare continuità e sviluppo alla pratica con cui era nato il femminismo: ricerca di "nessi" tra politica e vita, tra il sapere di sé e i «cento ordini del discorso» di cui pure siamo imbevute; un'autocoscienza capace di interrogare saperi e poteri della vita pubblica; una «geografia, non una genealogia», un sapere che non teme di addentrarsi in «paesaggi inquinati», di scandagliare il rapporto uomo-donna in tutta la sua complessità e contraddittorietà.

Ma torniamo all'oggi, alla domanda su come possa contribuire il sapere delle donne alla costruzione di una "democrazia di genere". Io penso che la cultura prodotta dal femminismo - quella che ha mantenuto un'attenzione al corpo, alla storia personale, al rapporto tra individuo e società - abbia oggi una parte importantissima, non tanto nel dare risposte quanto nel porre interrogativi al contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di quanto non si faccia di solito, quando si liquida tutto come "barbarie", "irrazionalità", "regressione". Il femminismo, se resiste alla tentazione di restringersi a "questione femminile" - uscita dalla marginalità, riequilibrio della rappresentanza, politiche sociali e famigliari, ecc. -, ha molto da dire, non solo su questioni specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i consultori, la violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che investono tutta la società: la crisi dei partiti, il trionfo dell'antipolitica, il populismo, le politiche sicuritarie, la xenofobia, la crisi della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le biotecnologie. Questo comporta, da un lato, recuperare la radicalità dello sguardo, del punto di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi - quello che ha visto nel rapporto tra i sessi l'impianto originario di ogni dualismo -, dall'altro prendere atto che le problematiche del corpo, e tutto ciò che è stato considerato "non politico", sono oggi al centro della vita pubblica, sia pure sotto etichette che ne occultano il significato politico - ad esempio "questioni eticamente sensibili", "problemi di coscienza". Purtroppo lo sono in modo molto diverso da come ce lo prospettavamo. Sono temi che rimandano a vissuti, esperienze umane tra le più significative, ma che non riusciamo quasi più, non solo a "raccontare", ma a "vivere" come tali, tanto sono intersecate, confuse coi poteri e i linguaggi della sfera pubblica.
Noi volevamo trovare "nessi" tra poli apparentemente opposti, oggi ci troviamo di fronte a un amalgama , in cui privato e pubblico, casa e città, azienda e Stato, sembrano divorarsi a vicenda. Sotto questo profilo si può leggere anche il protagonismo femminile: un esempio inequivocabile è Sarah Palin, un ibrido perfetto di tratti virili e femminili tradizionali. Sempre più spesso è il discorso pubblico a prevalere: non parliamo più di maternità e di aborto, ma di Legge 40 o Legge 194. Altre volte invece sono la vita e le relazioni personali e prevalere: è il quotidiano, la casalinghità, ad assorbire e stemprare dentro il "senso comune" le istituzioni della sfera pubblica.
Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si alimenta il populismo, bisogna tornare a interrogare l'esperienza, sapendo che oggi non è più pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano con saperi e poteri istituzionali. Per riappropiarsene occorre un sapere di sé capace perciò di confrontarsi con tutti i saperi specialistici elaborati dalle donne, i quali, a loro volta, devono lasciarsi contaminare, modificare, da quei «barlumi di sapere che vengono dalla lenta modificazione di sé» ("A zig zag" , 1978). Bisogna, in altre parole, imparare quello che Laura Kreyder, redattrice della rivista "Lapis", chiama «un salvifico bilinguismo»: «il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell'infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni» (Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998)
Ma si tratta anche di saper affrontare la conflittualità che questo sapere inedito apre in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti».

domenica 19 ottobre 2008

“Memorie dal tuo stesso paese” Report dell'incontro di mercoledì 15 ottobre 2008

QUESTIONI TEORICHE

All'incontro di oggi eravamo una decina, tra cui una ragazza nuova, Giovanna (e si è riunita al gruppo anche Lola). Dati i nuovi arrivi, abbiamo approfittato per ri-presentarci e ri-descrivere le ragioni della nostra partecipazione al seminario. Vuoi per la necessaria brevità di questo secondo “outing”, vuoi perché molte di noi sono al terzo incontro, ho avuto la sensazione che le risposte fossero diverse dalla prima volta e che tutte abbiamo messo maggiormente a fuoco aspettative e obiettivi. Bene. Ma certo l'oggetto (delle nostre discussioni, del nostro disagio, del nostro desiderio....) continua a illuminarsi in modo intermittente, e non appena ti sembra di averlo afferrato, trasparente come una biglia di vetro da tenere sul palmo della mano e offrire allo sguardo delle altre, ecco che improvvisamente si appanna di nuovo e rotola via, verso i territorio del non intellegibile, non dicibile, non condivisibile (poetica, eh? Deve essere la foto di Brunetta che sorride dalla prima pagina del giornale accanto a me....).

Comunque: detto così sembra un po' tautologico, anzi, diciamo che fa proprio ridere, ma all'alba del terzo incontro e dopo numerosi confronti, pare che ciò che interessa a tutte – pensate un po'! - sia la riflessione sulla/l'elaborazione della nostra identità di genere. Quindi mi dispiace: niente corso di Origami! Scherzi a parte, non so se è la mia percezione individuale, ma davvero credo che questa sia una piccola conquista, e perdonatemi le metafore militar-territoriali, però davvero penso che abbiamo picchettato un'area comune, trasversale alle generazioni e alle appartenenze. Voglio dire che a volte mi è sembrato che “identità di genere” e “differenza” fossero parole in codice, parole che che usavamo per “semplificare”, per richiamare posizioni teoriche, letture, sensibilità e modi di stare nel mondo che forse non sono così condivisi da tutte le donne nel gruppo. Invece oggi queste parole davvero hanno preso corpo, per la prima volta, mi pare, avevano senso (o iniziavano a perderlo, che è la stessa cosa) per TUTTE: ognuna poteva agganciarci un pezzetto di vissuto, usarle per rileggere relazioni di una vita o per dare un nome alla sensazioni di un'istante.

Vabbè, non riesco a uscire dal corto-circuito delle parole. Proviamo così, riportando alcuni interrogativi e qualche risposta, che sono stati punti di innesco della discussione e che magari in futuro ci potrebbero servire:

- E' possibile definire un'identità senza il confronto con l'altro (in questo caso, il genere maschile)? E' necessario, sì, ma non rischia di divenire autoreferenziale, di costringere l'orizzonte, come “parlare con uno del tuo stesso paese”?

- Importanza di esplicitare il genere (ma anche il sesso, l'appartenenza etnica ecc.) dell'altro, altrimenti questo altro diviene un soggetto indefinito, che si pretende neutro (e sappiamo che tutto ciò che è stato scritto al neutro e pensato come neutro è in realtà maschile);

- Cosa vuole dire per ognuna/in che modo ognuna fa l'esperienza di “significare la differenza, lo scarto dalla norma”? Lo scarto dalla norma ha evidentemente una grande parentela con il fatto di essere continuamente, nei contesti privati e pubblici più diversi, “sessualizzate” (nel senso di feticizzate, trasformate in oggetti sessuali, ma soprattutto nel senso – persino più grave – di essere identificate, percepite, riconosciute, in primis e in via definitiva, in virtù del proprio sesso.

- In che modo avviene la naturalizzazione, la normalizzazione di quelle limitazioni e ingiustizie di cui siamo vittima e che sono interamente culturali? Esempio: troviamo accettabile, e nemmeno limitante, ma anzi, protettivo, che ci ama ci ricordi la nostra vulnerabilità in quanto donne e ci inviti a comportarci di conseguenza. Noi per prime ci facciamo cooptare da questa logica, la obbediamo come se fosse ineluttabile e quindi la riproduciamo e la rafforziamo (sono donna e quindi fragile, “gli altri” per me possono essere un pericolo: è normale che io debba usare qualche cautela in più rispetto ai miei coetanei maschi). Invece qui di normale, naturale non c'è proprio niente, è tutto culturale: una cultura che indirettamente legittima la predabilità della donna; una cultura, che, di nuovo, ci ha abituato all'assunzione della neutralità dell'altro. Il “problema della sicurezza”, il modo in cui i media lo presentano e l'agenda politica lo usa, il modo in cui noi per prime lo interpretiamo e interpretiamo la nostra posizione (POTERE) in relazione allo stesso rivela con chiarezza il rischio di generalizzazione e quindi mistificazione contenuto nella pretesa di neutralità dell'altro. Ci dicono “gli altri possono essere una minaccia per la tua sicurezza, e lo sono ancor di più se sei una donna”: e se questa paura, che razionalmente rifiutiamo, in qualche modo ci si attacca addosso, è perché anche tutte noi ascoltiamo, diciamo, scriviamo “altri” ma in realtà leggiamo “uomini”. Se il genere dell'altro venisse esplicitato, ne deriverebbe un modo completamente diverso di percepire e affrontare il “problema della sicurezza”: non perché non sia un problema, ma perché chiaramente non si limita alla “sicurezza”. Non so se ho spiegato bene.

PROPOSTE PRATICHE

1) Su suggerimento di Lola, abbiamo pensato che sarebbe molto utile realizzare una mappatura di tutti i soggetti (associazioni, collettivi, movimenti, circoli, gruppi universitari ecc.) che sul territorio italiano si occupano di tematiche di genere. Con possibile link ai loro siti e magari tentativo di instaurare un dialogo quando faremo iniziative allargate. Opinione personale: penso che sia molto utile. Moltiplicare gli interlocutori, realizzare incontri con donne che vengono da altre esperienze e portano altre analisi e altre pratiche, diverse da quelle che maturano entrano l'università, è sicuramente un modo per potenziare il nostro sguardo e la nostra capacità di azione. E è una risposta concreta al fenomeno della segregazione sociale e dei saperi, che, personalmente, mi pare costituisca il principale ostacolo al cambiamento.

2) Abbiamo pensato che sarebbe interessante organizzare delle vere e proprie lezioni, perché tutte abbiamo esigenza di dotarci di strumenti di analisi che siano teoricamente informati: l'idea sarebbe di affrontare la questione dell'identità di genere in primo luogo in chiave storica e filosofica, per definirla in via teorica e conoscere/approfondire le diverse posizioni che si sono affermate in merito (come viene concepito il “genere” entro la corrente angloamericana dei gender studies? E' all'interno di quella italiana e francese del “pensiero della differenza”? In che modo si articola il rapporto tra sesso, genere, orientamento sessuale? Quale delle due posizioni risulta più incisiva nel criticare lo status quo? Ecc..). Poi si potrebbe analizzare la tematica del genere in relazione ad altre (il potere, per dirne una) e nelle sue diverse declinazioni disciplinari (filosofia politica, letteratura, sociologia, media studies, e dico solo le prime che mi vengono in mente, ma insomma, un po' sulla falsariga dei moduli del master. Ho anche parlato con docenti di SDC e lettere e filosofia che sarebbero interessate a partecipare). Ognuna di noi potrebbe contribuire con le sue conoscenze settoriali, e per fare in modo che non si tratti di lezioni frontali e basta, potremmo organizzarle con la prima ora di spiegazioni a carico di chi tratterà le diverse tematiche e la seconda di dibattito. Naturalmente la spiegazione e dibattito possono essere serializzate e proseguire anche all'incontro/incontri successivi, se non esauriamo tutto in uno solo. La presenza di donne che vengono da formazioni e professioni diverse sarebbe sicuramente una risorsa importante per provare a realizzare un collegamento continuo tra le posizioni teoriche e l'esperienza quotidiana e diretta di tutte noi. Se siamo tutte d'accordo, dal prossimo incontro potremmo iniziare a buttare giù uno schema.

3)Se l'assemblea permanente (dalle 17 di ogni giorno al rettorato) dovesse continuare sarebbe bello portare lì i nostri incontri: un modo per contribuire fattivamente al ripensamento delle forme di circolazione del sapere entro l'università, un modo per coinvolgere altre donne. Barbara o Sonia hanno poi preso contatti con le studentesse/gli studenti dell'assemblea per dire questa cosa?

venerdì 17 ottobre 2008

Rettorato mercoledì?

IMPORTANTE COMUNICAZIONE DI SERVIZIO.
La protesta al Rettorato sta prendendo delle pieghe insperate, ci sono gruppi di stdio, comitati etc. Naturalmente ci saremo anche noi, no? Publicizzo la nostra riunione alla solita ora del mercoledì? Oppure, troviamo un giorno per vederci lì al Rettorato?

Con Giovanna avevamo pensato di accompagnare la riunione alla proiezione di un film "l'albero di Antonia", se volete maggiori informazioni in proposito contattate lei.

Aspetto risposte. Ciao
Veronica

forme e formalità

Ho scritto queste riflessioni dopo l'incontro di due settimane fa. Magari non ha molto senso postarlo ora, ma almeno può funzionare come documento che testimoni il percorso del discorso che stiamo affrontando.

Vorrei chiarire quali sono statai i punti affrontati nella precedente riunione nei miei interventi, un po' confusionari e in certi punti eccessivamente trainati dal mio personale punto di vista:

  • La tematica del potere e la questione attuale dell'università senese.

Per quanto mi riguarda mi sono avvicinata al gruppo femminista per confrntarmi e apprendere dalle esperienze di altre persone -nel caso specifico donne- che, avendo vissuto esperienze e situazioni storiche differenti dale mie, possono fungere da spunto per il mio presente e il mio futuro. Presente e futuro da cittadina oltre che come persona e donna. Mi piacerebbe che questo lavoro mi permetta, anzi ci permetta secondo una prospettiva più realistica, di trovare degli spiragli, dei punti nella società e nel discorso politico che conducano all'azione, alla re-azioe come resistenza ad un mondo politico o ad una societò che non percepisce o comunque si disinteressa alle espressioni di malcontento portate avanti secondo metodi ormai fossilizzati e “tradizionalmente”(nel senso di già vissuti ripeutatemente) utilizzati, quali manifestazioni o cortei o occupazioni.Nell'esprimemere la mia diffidenza, o meglio disillusione, di fronte ad un'attività politica svolta secondo schemi tradizionali (nel senso prima indicato) mi conduce invitabilmente a cercarne degli altri. Ripeto, non disdegno del tutto queste manifestazioni calorose di massa ma sento con urgenza la necessità di agire secondo altre modalità. Ritengo quindi, molto più incisivo un lavoro come quello di assistenza alle donne nel lavoro o come il progetto di studio sul decreto legge della riforma universitaria con l'attività parallelea di diverse figure del mondo universitario ossia ricercatori, studenti, dottorandi. Ho sempre pensato che prospettive diverse possano esclusivamente arricchire.

  • La temetica femminista e il linguaggio.

Essendo relativamente più giovane delle altre, alcune formule linguistiche ormai radicate nel linguaggio femminista sono per me fonte di cattive interpretazione e straniamento. Come forse ricorderete ho voluto sottolineare la mia estraneità al discorso del posizionarsi, del capire dove si è etc. In una breve chiacchierata dopo quell'incontro, grazie ad una delle ragazze presenti, ho capito il senso di quell'espressione collocandola appunto nel suo contesto storico, in una dialettica che io non ho vissuto. Voglio precisare prima di tutto che sono fermamente convinta che non si nasce donna, doprattutto in questo mondo, ma che lo che lo si diventi con un percorso che è lungo e travagliato di continua negazione e compromesso. Così come. Tra l'altro, non si nasce persone, niente ci è dato se non il respiro sta a noi poi decidere come indirizzarlo. Quindi, alla luce di ciò che penso di aver capito a proposito della espressione prima citata, penso di dover concludere che l'ambiguità che io avevo letto nell'espressione rima citata era dovuto solo alla mia ignoranza. E' che in un mondo produttivo e catalogatore rifuggo sempre da chi mi chiede chi sono, penso che l'unica libertà che ci è data sia proprio di poterci riservare la possibilità e con essa la sorpresa di scoprirci diverse a seconda delle situazioni, dei momenti, degli stati d'animo altrimenti ogni gionata e tutta la vita assumerebbe i toni foschi e fissi della tragedia. Concludo esprimendo il più sentito interesse nei confronti delle tematiche proposte, spero di riuscire a dedicare a questo progetto energie che, di sicuro, non andranno sprecate.

Chiarisco l'ultimo punto espresso l'altra volta a proposito della forma del discorso. Per quanto mi riguarda, è bene che si mantenga una certa formalità e distanza tra di noi, perchè le nostre energie siano canalizzate soprattutto verso un lavoro come un manufatto culturale, piuttosto che annegare in discorsi intimistici e personali. Non penso che solo “l'impersonale” sia politico, ma mi sembra che sia di maggiore arricchimento mantenere una posizione più neutra. Ciò non significa che non mi interessa conoscervi o conoscere la persona che mi sta di fronte al di là del ruolo itituzionale che svolge ma penso che per conoscere una persona ci voglia molto tempo e, come direbbe Kant, non è possibile obbligare ad amare, io direi non è possibile obbligare a conoscere. Se ciò avverrà sarà una fortuna, per ora poniamo le basi per qualcosa di oggettivamente più stabile ed umano.


Veronica

mercoledì 15 ottobre 2008

Ri-significare le parole: perché?

Partendo dal titolo di questo seminario, “Presenti, differenti. La parola alle donne” sorge, provocatoria, una domanda: quale parola? La parola dietro cui si maschera il luogo del potere di una società connotata al maschile?
La parola da cui per secoli la storia ci ha escluse, relegandoci all’ombra di un sentire diverso e minoritario? La parola che, appannaggio esclusivo degli uomini, ha consolidato il gioco delle parti in una cultura declinata da un soggetto univoco e uniforme, il maschio bianco proprietario della realtà? Quale parola?
E, quale donna? Chi è questa donna che, insolente, prende la parola?
Presupposto imprescindibile, sembra porsi allora un’altra, fondativa, questione: “che cosa rappresenta l’essere donna”? E cosa rappresenta in rapporto all’essere uomo, all’interno di una società globalizzata e uniformante?
Rispondere a questa domanda presuppone, a mio avviso, una dislocazione del soggetto dai cardini a cui la storia lo ha assicurato; una mise en question delle tracce su cui quella stessa storia è stata costruita. Tracce quasi elusivamente maschili. Quasi, perché vi sono delle smagliature nella rete. Momenti di apertura ad un altro modo di essere in relazione della realtà cosciente, esperienza di un mondo sensibilmente esperibile e scientificamente documentabile: il vivente; con la realtà sfuggente e apofatica dell’inconscio, all’interno di quel mondo della psiche che si fa conoscibile solo attraverso le immagini dell’anima: il vissuto. Un modo diverso di mettere in relazione il vissuto con il vivente, l’Io e l’Altro. Momenti che hanno il sapore di una rivendicazione possibile ma, soprattutto, mostrano che disorientare l’Io, dis-locare il soggetto è premessa necessaria nell’esperienza di un diverso sentire identitario e, a maggior ragione, nella costruzione di un’identità di genere.
De-costruire il soggetto fallo-logo-centrico, ricostruendo un soggetto duale.
Ma per mettere in crisi la centralità dell’Io occorre mettere in crisi il modo di dirsi di questa centralità.
Ecco, quindi, che i termini della questione possono essere cambiati, e alla domanda “che cosa rappresenta l’essere donna?”, se ne sostituisce un’altra: “che cosa significa l’essere donna?”. Quali sono, cioè, le parole che il femminile usa per dirsi e, ancor prima, per riconoscersi?
I concetti passano attraverso le parole, e l’uso continuato di una parola convalida il valore concettuale di cui è intrinsecamente portatrice.
Diventa allora importante, primario, restituire alle parole l’ampiezza del loro significato, individuarne accanto al referente extra linguistico di matrice spiccatamente maschile, anche il referente femminile. E diventa necessario chiedersi se termini quali identità, alterità, produttività, solidarietà, tolleranza, ideologia, etc., acquistino un significato diverso da quello che quotidianamente gli attribuiamo, se correlati al genere femminile.
Le parole esprimono i concetti, raccontano, cioè, il modo di essere di una realtà; ma il linguaggio è anche l’espressione del mio essere in questa realtà: parlare in un certo modo mi situa in una specifica porzione del reale. Le parole sono il collante di cui la cultura si serve per conservare e perpetuare la sua integrità; sono il “detto” che sancisce la realtà, poiché ci hanno insegnato che la realtà è solo ciò di cui si può dire.
Ecco, allora, che per ripensare il mondo al femminile occorre intervenire sulle parole che lo consolidano e attraverso cui si autocelebra. Per ripensare il mondo al femminile è necessario de-costruire l’identità di genere culturalmente determinata, a partire dalle parole con cui la storia l’ha raccontata.
Che cosa significa l’essere donna? E che cosa significa l’essere uomo? Bisogna ripartire da qui, dall’inesorabile differenza. E riappropriarci delle parole, ricontestualizzarle rispetto alla differenza, ritrovarne l’originario senso duale, considerarle in-situazione e non in astratto, ricollocarle all’interno di quel vissuto che sembra imprenscindibile dall’esperienza della corporeità.
“Ri-significare le parole” in funzione della libertà delle donne di esprimersi per se stesse.

martedì 14 ottobre 2008

Per una serie di circostanze non potrò essere presente ai prossimi incontri, ed ecco che l’idea del blog mi risulta subito utilissima per rispondere alla e-mail di Elisa, che mi ha fatto molto pensare laddove dice che "il ‘genere’ questa volta ha impiegato un po’ di tempo per emergere come variabile rilevante."

La mia impressione, invece, è stata che seppure non si parlava ‘di’ genere, si parlava però ‘nello stile’ che alla nostra esperienza di donne è legato: e cioè a partire da sé, da un sé chiaramente situato laddove, non solo fisicamente, ci troviamo, cioè nell’istituzione universitaria e, per di più, in un momento di grossa crisi di essa. Il passaggio, apparentemente brusco, dalla comunicazione più legata alle esperienze familiari oppure, per le più grandi d’età, alla propria storia femminista – questi i temi che hanno caratterizzato il primo incontro – all’interrogarsi sull’oggi anche ricordando il proprio passaggio nei diversi momenti di crisi nella storia recente dell’università, l’ho percepito come un movimento fortemente positivo, perché fortemente legato alla realtà in cui vogliamo stare, credo, collettivamente eppure portandoci tutte le nostre differenze: di età e di status, di esperienze e di punti di vista. Mi fermo qui, buona riunione domani, e ci sentiremo attraverso il blog e le e-mail e -spero almeno con qualcuna- anche a voce …
Michela, 14 ottobre

mercoledì 8 ottobre 2008

Il primo incontro: report

In questa prima occasione, nonostante l'idea fosse di organizzare la discussione intorno alle 3 domande che ci eravamo poste, mi pare che gli interventi si siano sviluppati piuttosto liberamente e che la discussione si sia di volta in volta ridefinita a seconda delle questioni toccate da ognuna. Sono state molte, e hanno preso forme diverse, che andavano dal racconto del proprio vissuto al richiamo di posizioni teoriche. Provo a riportare i contenuti degli interventi organizzandoli attorno a quelle che mi sono sembrate alcune delle problematiche più diffuse e urgenti. Si tratta naturalmente di una mia interpretazione e tematizzazione, e chiedo alle altre di fare eventuali precisazioni o integrazioni: abbiamo pensato che questa sintesi potrebbe costituire un punto di partenza per chi voglia elaborare individualmente le proprie risposte alle domande, o comunque una primissima e provvisoria mappa dei nodi attorno a cui possiamo scegliere di riprendere il dialogo.

Cittadinanza: universalità e differenza di genere

Partiamo dal primo giro di interventi. E' forse possibile rinvenire un comune denominatore nell'esigenza di riflettere sulla propria condizione di genere, su cosa abbia significato in passato e su quale rilevanza possa avere nel presente. Parlo di “esigenza” perché è venuto spontaneo a molte orientare in questa direzione la descrizione delle motivazioni per cui hanno preso parte all'incontro. Alcune hanno elaborato la propria coscienza femminile parallelamente a quella femminista, per così dire, perché vengono da un percorso politico maturato negli anni '70, che ha prodotto una tale comunanza di esperienze e di senso che “potrebbero parlarsi a gesti”; per altre, le più giovani e/o quelle che hanno avviato questa riflessione più di recente – così mi pare, e comunque mi ci metto io – il processo di soggettivazione è ancora in fieri (ammesso che sia mai concluso!): per “nominare il genere”, per mettere a fuoco la differenza di cui sono portatrici, queste donne sentono il bisogno di “partire dall'inizio”, come ha detto qualcuna, dal proprio vissuto, dalle riflessione sulle relazioni familiari e professionali; altre ancora affermano, con un'immagine molto bella, di sapere da sempre, “per nascita”, cosa significasse il (proprio) genere, ma di essere adesso fortemente perplesse circa la rilevanza di questa dimensione, e quindi circa l'utilità di un'analisi e di un pratica costruita attorno ad essa, rispetto alla possibilità di intervento sulle molte emergenze dell vita individuale e collettiva. Ha veramente senso un “discorso di genere” quando si vive in ambienti lavorativi che democraticamente disintegrano i più basilari diritti umani, tanto degli uomini quanto delle donne? Quale valore può aggiungere un percorso come quello che stiamo proponendo alle forme e all'incisività del nostro intervento (nelle nostre esistenze individuali come nella sfera pubblica), quando la precarietà e l'incertezza del futuro, la mancanza di ammortizzatori sociali, l'atomizzazione e la solitudine in cui siamo costrette/i dal presente modello economico, culturale e sociale, sono problemi apparentemente più urgenti e più orizzontali di quelli legati al genere?
Alcune pensano che queste domande chiamino in causa il nodo di sempre, pur riproponendolo in forme più gravi e macroscopiche, ovvero quello tra universalità e genere; aggiungono che non c'è contraddizione fra i due poli: forse c'è solo un “bisogno disperato” di far emergere e diffondere questa coscienza femminile proprio come forma di soggettivazione e punto di partenza che ci consenta di ripensare i diritti umani, e contribuire all'affermazione degli stessi in modo più efficace. Conoscenza e coscienza come “qualcosa che serva a tutti ma sia intrecciato a me. Che si faccia usare senza farci caso, che mi aiuti a difendere la mia identità nel mondo, con gli altri. E con me quella delle altre donne, delle altre persone”. Portatrici sane di identità di genere, mi viene da dire, portatrici di una dimensione che non sempre scegliamo di mettere in primo piano nelle nostre relazioni con gli altri, e che tuttavia è sempre lì; voce all'occorrenza silente ma risorsa perennemente disponibile, cui attingiamo persino “senza farci caso”. Una risorsa, osservano alcune, che è tanto più importante alimentare quanto più a fare “petizione di universalità”, annullando il genere, sono oggi anche molte donne.

La parola al femminile: questione di forma o di sostanza?
Con un piccolo flash-forward, passiamo al termine della discussione, o almeno a uno dei nodi emersi con più forza verso la fine della stessa, che mi pare si ponga in un rapporto più speculare di quanto si possa pensare con il precedente, punto di avvio della discussione. Alla fine del seminario, c'è la comune percezione della profonda differenza nelle modalità di gestione della parola in pubblico e nelle forme dialogiche stesse (tutte parlano, tutte accolgono le parole delle altre e le conservano dentro di sé, richiamandole nei propri interventi; nessuna interrompe, nessuna si sente obbligata a parlare, nessuna si affanna a riempire i momenti di silenzio). E c'è la comune percezione del tipo di consapevolezza a cui questa parola può portare.“Il seminario non si sarebbe svolto così se fossero stati tutti uomini”, afferma qualcuna, e aggiunge che proprio per questo è necessario coinvolgerli e/o individuarli come destinatari di azioni volte alla sensibilizzazione (“dobbiamo parlare con gli uomini”).
Qualcuna solleva una perplessità: il metodo è certamente positivo, ma se non c'è una direzione precisa, se non c'è la possibilità di produrre analisi su istanze e problematiche concrete, e di tradurre questa analisi in azione rispetto alle stesse, il valore – pur importante - del confronto rimane confinato al solo metodo (non so se ho frainteso).
Il quesito è fondamentale. Alcune tuttavia credono che forma e sostanza non siano scindibili, che lo stesso esercizio di questo metodo sia di per sé esercizio/manifestazione della differenza e quindi punto di partenza per l'azione. In altri termini, si può dire, senza scivolate essenzialiste, che questa modalità di confronto, a tutte congeniali, contribuisce a identificare una specifica sensibilità e soggettività femminile? Forse intervenire nel reale è anche provare a elaborare i tratti di una comune cultura femminile, ri-educarci tutti/e ai valori, alle forme di relazione che la caratterizzano; praticarla noi per prime allinterno di uno spazio comunque più orizzontale delle lezioni universitarie, prenderne coscienza, e quindi “esportarla” anche ai molti altri contesti in cui ci muoviamo e alle relazioni che li attraversano: a partire dall'ambiente lavorativo, che per molte di noi implica un contatto continuo con il pubblico e comunque con altri, uomini e donne.

Tra la fine e l'inizio, diverse le questioni affrontate, che così riassumo:

Sapere: teoria e pratica, trasmissione e interruzione
Per alcune la ragione della partecipazione è anche la volontà di conoscere da vicino quella storia che hanno letto sui libri, le teorie del/sul genere, le esperienze e le analisi prodotte dai movimenti femministi; narrative collettive, che forse non si collegano in modo intuitivo alla quotidianità di chi è donna nell'università e nella società di oggi, dove “collettivo” ha via via perso significato, ma non sono invece aumentate la qualità della vita, la possibilità di progettare il futuro, la libertà di movimento (all'interno della scala sociale come delle strade cittadine quando si fa sera, diciamo). C'è qualcosa che, con i dovuti distinguo, quella storia e quelle analisi possono ancora insegnarci? Posso mettere in pratica la teoria?
Ci diciamo tutte che l'età delle donne che hanno preso parte è di per sé una ricchezza, in questo senso, perché dai 20 ai 60 tutte sono rappresentate; semplifico così la riflessione emersa sul tema della intergenerazionalità del seminario: se per le più giovani il riferimento al passato è una tappa avvertita come necessaria per provare a immaginarsi nel futuro, per le più grandi è altrettanto fondamentale il confronto con queste altre generazioni, illuse dalla storia di aver ereditato per nascita conquiste e diritti anche in quanto donne, e poi schiacciate dall'evidenza di aver perso diritti, tout court, in quanto persone. Che cosa si è “perse per strada” il movimento femminista?
Gli anni e la diversità delle epoche fanno sì che la continuità delle esperienze divenga intermittente: un “filo”, come lo ha definito qualcuna, che a tratti si perde ma poi riemerge improvvisamente in altre zone della discussione; un filo dove però si formano a tratti dei veri e propri colli di bottiglia, che impediscono al sapere di circolare. E' allora necessario esplicitare le differenze che ci dividono (di età, di posizione, di fase della vita ecc.) per riuscire a condividere, per poter dire “io”, “noi”.

Il pubblico e il privato. Ovvero, il movimento femminista e la cultura di massa.
A lungo rimasta in filigrana nella discussione, come un subtesto che scorre sotterraneo, eccola qui, la vecchia coppia pubblico/privato fa capolino in modo esplicito nelle ultimissime battute. Appare nel contesto della riflessione sulle forme e il portato politico della parola in comune, e a chiamarla in causa è una delle ragazze più giovani. Lo fa in modo davvero acuto e originale (ora io lo espando un po' perché non resisto, visto che incrocia proprio il mio terreno di studi, ma insomma credo che il senso fosse questo): intere generazioni sono cresciute nell'epoca della televisione commerciale, un'epoca in cui questo mezzo ha assunto crescente rilevanza, persino primato, rispetto ad altre agenzie di socializzazione. Tra i molti paradossi che questo ha creato, ce ne è uno che ci riguarda direttamente, indipendentemente dal fatto che siamo in prima persona consumatrici di televisione o meno: “siamo abituati a vedere racconti di problemi privati fatti da donne a conduttrici televisive donne, a cui anche noi a volte partecipiamo come pubblico, ma questa abitudine alla confessione e al confronto, che sarebbero fondamentali, non si estende mai ai rapporti faccia a faccia; nella vita reale occasioni di scambio allargato come in questo seminario non avvengono mai; le donne non parlano fra sé”.
E' vero, il confronto su temi personali e intimi avviene oggi preferenzialmente entro i pubblicissimi salotti televisivi, unica arena in cui, finalmente, sembra aver ritrovato la parola anche quella “maggioranza silenziosa” a cui le avanguardie femministe guardavano con diffidenza. E mentre in tv la testimonianza diretta e il privato divengono protagonisti indiscussi dello spettacolo, nella vita di tutti i giorni mancano occasioni in cui confrontarsi e fare quello che non si fa nei talk show: mettere in dialogo il proprio vissuto per realizzare il passaggio dall'individuale al generale, che è l'unica condizione per la soggettivazione e l'azione politica.
C'è una relazione con il movimento femminista? - interrogativo che mi viene rivolto alla fine della discussione - E' successo questo? Quel privato che abbiamo con ogni forza sdoganato, di cui abbiamo affermato la rilevanza in quanto politico, è stato interamente sequestrato dai media? E' anche “colpa nostra” se si è prodotta non la politicizzazione, a cui il movimento mirava, ma la mera pubblicizzazione a fini di intrattenimento della sfera privata?
Non so se ho interpretato correttamente, ma mi sembrava una questione rilevante...

Elisa Giomi

Facciamo il punto

All’incontro preliminare del 23 luglio, riflettendo sul modo in cui iniziare a utilizzare lo spazio seminariale (che, ricordo, consiste nell’avere a disposizione l’aula M del Palazzo di San Galgano per due ore settimanali, mercoledì ore 14-16, dall’inizio di ottobre a tutto il mese di maggio 2009) abbiamo messo a fuoco alcuni temi d’interesse, un punto problematico e una proposta, di cui faccio un sintetico rendiconto.
La proposta è che nei primi tre incontri (1, 8, 22 ottobre) ciascuna di noi, comprese naturalmente coloro che non hanno potuto essere presenti ieri ma hanno intenzione di parteciparvi, prenda la parola sulla traccia di queste tre domande: perché mi va di prendere parte a questo seminario, che cosa mi aspetto, che contributo penso di potervi dare.

Pensiamo che in questo modo si possa arrivare a definire un tema di lavoro comune, che potremmo presentare in una iniziativa pubblica da svolgere a novembre, in modo da far conoscere l’esistenza del seminario ad altre donne interessate a parteciparvi, iniziando concretamente gli incontri secondo il ritmo di lavoro che decideremo di darci.

Alcuni dei temi affiorati nella discussione sono di natura pragmatica (il rapporto fra donne e università, il bilancio di genere, il lavoro part-time), a fronte di un’esigenza di natura più teorica che è stata nominata come ‘necessità di risignificare le parole’ in funzione della libertà delle donne. Proprio sui temi (questi ed eventualmente altri) e sugli obiettivi –uno dei quali è stato indicato nella possibile costituzione di una rete con gli altri gruppi di donne che sono attivi a Siena – metteremo a confronto le idee di ciascuna in quei primi incontri di cui sopra.

Il punto problematico riguarda la posizione da prendere rispetto agli uomini che desiderino entrare in rapporto con questo gruppo di discussione: non è in questione, ovviamente, la partecipazione degli uomini alle iniziative pubbliche che faremo, a partire da quella di presentazione; ma almeno nei primi incontri dovremo riflettere attentamente se possa essere fruttuoso instaurare uno scambio già negli incontri di elaborazione e discussione. Per il momento, cioè per gli incontri di ottobre, ci atteniamo al metodo di lavoro ‘separato’, per poter avere piena libertà di esprimerci proprio anche su questo argomento che è molto delicato e significativo.

Naturalmente ciascuna di voi potrà estendere l’invito ad altre donne, anche non ‘istituzionalmente’ legate all’università, ma che siano interessate a riflettere insieme in questo contesto.

Michela Pereira

Un seminario libero di discussione

Col sostegno della Facoltà di Lettere e Filosofia e del Comitato Pari Opportunità dell’Università di Siena ci proponiamo di realizzare in via sperimentale nell’anno accademico 2008-2009 un seminario libero di discussione collegato al corso “Filosofia e studi di genere” e coordinato dalla docente del corso, Michela Pereira. Rispondendo a esigenze emerse in varie occasioni recenti, si vuole mettere a disposizione uno spazio aperto a tutte coloro che si riconoscono –per nascita o per scelta– nel genere femminile e che studiano, insegnano, lavorano nel nostro ateneo, per favorire un confronto sulle tematiche riconducibili alla differenza di genere a partire dall’esperienza e dalle competenze di ciascuna, in un contesto pubblico e progettuale non vincolato ad adempimenti didattici (il seminario non costituisce attività didattica per le docenti né orario di lavoro per le amministrative, non conferisce crediti, non prevede prove di verifica).
Abbiamo pensato di utilizzare un blog per rafforzare e aprire la discussione e un sito web per raccogliere le idee.
Il primi due post raccolgono le email e gli scambi compiuti finora.