mercoledì 8 ottobre 2008

Il primo incontro: report

In questa prima occasione, nonostante l'idea fosse di organizzare la discussione intorno alle 3 domande che ci eravamo poste, mi pare che gli interventi si siano sviluppati piuttosto liberamente e che la discussione si sia di volta in volta ridefinita a seconda delle questioni toccate da ognuna. Sono state molte, e hanno preso forme diverse, che andavano dal racconto del proprio vissuto al richiamo di posizioni teoriche. Provo a riportare i contenuti degli interventi organizzandoli attorno a quelle che mi sono sembrate alcune delle problematiche più diffuse e urgenti. Si tratta naturalmente di una mia interpretazione e tematizzazione, e chiedo alle altre di fare eventuali precisazioni o integrazioni: abbiamo pensato che questa sintesi potrebbe costituire un punto di partenza per chi voglia elaborare individualmente le proprie risposte alle domande, o comunque una primissima e provvisoria mappa dei nodi attorno a cui possiamo scegliere di riprendere il dialogo.

Cittadinanza: universalità e differenza di genere

Partiamo dal primo giro di interventi. E' forse possibile rinvenire un comune denominatore nell'esigenza di riflettere sulla propria condizione di genere, su cosa abbia significato in passato e su quale rilevanza possa avere nel presente. Parlo di “esigenza” perché è venuto spontaneo a molte orientare in questa direzione la descrizione delle motivazioni per cui hanno preso parte all'incontro. Alcune hanno elaborato la propria coscienza femminile parallelamente a quella femminista, per così dire, perché vengono da un percorso politico maturato negli anni '70, che ha prodotto una tale comunanza di esperienze e di senso che “potrebbero parlarsi a gesti”; per altre, le più giovani e/o quelle che hanno avviato questa riflessione più di recente – così mi pare, e comunque mi ci metto io – il processo di soggettivazione è ancora in fieri (ammesso che sia mai concluso!): per “nominare il genere”, per mettere a fuoco la differenza di cui sono portatrici, queste donne sentono il bisogno di “partire dall'inizio”, come ha detto qualcuna, dal proprio vissuto, dalle riflessione sulle relazioni familiari e professionali; altre ancora affermano, con un'immagine molto bella, di sapere da sempre, “per nascita”, cosa significasse il (proprio) genere, ma di essere adesso fortemente perplesse circa la rilevanza di questa dimensione, e quindi circa l'utilità di un'analisi e di un pratica costruita attorno ad essa, rispetto alla possibilità di intervento sulle molte emergenze dell vita individuale e collettiva. Ha veramente senso un “discorso di genere” quando si vive in ambienti lavorativi che democraticamente disintegrano i più basilari diritti umani, tanto degli uomini quanto delle donne? Quale valore può aggiungere un percorso come quello che stiamo proponendo alle forme e all'incisività del nostro intervento (nelle nostre esistenze individuali come nella sfera pubblica), quando la precarietà e l'incertezza del futuro, la mancanza di ammortizzatori sociali, l'atomizzazione e la solitudine in cui siamo costrette/i dal presente modello economico, culturale e sociale, sono problemi apparentemente più urgenti e più orizzontali di quelli legati al genere?
Alcune pensano che queste domande chiamino in causa il nodo di sempre, pur riproponendolo in forme più gravi e macroscopiche, ovvero quello tra universalità e genere; aggiungono che non c'è contraddizione fra i due poli: forse c'è solo un “bisogno disperato” di far emergere e diffondere questa coscienza femminile proprio come forma di soggettivazione e punto di partenza che ci consenta di ripensare i diritti umani, e contribuire all'affermazione degli stessi in modo più efficace. Conoscenza e coscienza come “qualcosa che serva a tutti ma sia intrecciato a me. Che si faccia usare senza farci caso, che mi aiuti a difendere la mia identità nel mondo, con gli altri. E con me quella delle altre donne, delle altre persone”. Portatrici sane di identità di genere, mi viene da dire, portatrici di una dimensione che non sempre scegliamo di mettere in primo piano nelle nostre relazioni con gli altri, e che tuttavia è sempre lì; voce all'occorrenza silente ma risorsa perennemente disponibile, cui attingiamo persino “senza farci caso”. Una risorsa, osservano alcune, che è tanto più importante alimentare quanto più a fare “petizione di universalità”, annullando il genere, sono oggi anche molte donne.

La parola al femminile: questione di forma o di sostanza?
Con un piccolo flash-forward, passiamo al termine della discussione, o almeno a uno dei nodi emersi con più forza verso la fine della stessa, che mi pare si ponga in un rapporto più speculare di quanto si possa pensare con il precedente, punto di avvio della discussione. Alla fine del seminario, c'è la comune percezione della profonda differenza nelle modalità di gestione della parola in pubblico e nelle forme dialogiche stesse (tutte parlano, tutte accolgono le parole delle altre e le conservano dentro di sé, richiamandole nei propri interventi; nessuna interrompe, nessuna si sente obbligata a parlare, nessuna si affanna a riempire i momenti di silenzio). E c'è la comune percezione del tipo di consapevolezza a cui questa parola può portare.“Il seminario non si sarebbe svolto così se fossero stati tutti uomini”, afferma qualcuna, e aggiunge che proprio per questo è necessario coinvolgerli e/o individuarli come destinatari di azioni volte alla sensibilizzazione (“dobbiamo parlare con gli uomini”).
Qualcuna solleva una perplessità: il metodo è certamente positivo, ma se non c'è una direzione precisa, se non c'è la possibilità di produrre analisi su istanze e problematiche concrete, e di tradurre questa analisi in azione rispetto alle stesse, il valore – pur importante - del confronto rimane confinato al solo metodo (non so se ho frainteso).
Il quesito è fondamentale. Alcune tuttavia credono che forma e sostanza non siano scindibili, che lo stesso esercizio di questo metodo sia di per sé esercizio/manifestazione della differenza e quindi punto di partenza per l'azione. In altri termini, si può dire, senza scivolate essenzialiste, che questa modalità di confronto, a tutte congeniali, contribuisce a identificare una specifica sensibilità e soggettività femminile? Forse intervenire nel reale è anche provare a elaborare i tratti di una comune cultura femminile, ri-educarci tutti/e ai valori, alle forme di relazione che la caratterizzano; praticarla noi per prime allinterno di uno spazio comunque più orizzontale delle lezioni universitarie, prenderne coscienza, e quindi “esportarla” anche ai molti altri contesti in cui ci muoviamo e alle relazioni che li attraversano: a partire dall'ambiente lavorativo, che per molte di noi implica un contatto continuo con il pubblico e comunque con altri, uomini e donne.

Tra la fine e l'inizio, diverse le questioni affrontate, che così riassumo:

Sapere: teoria e pratica, trasmissione e interruzione
Per alcune la ragione della partecipazione è anche la volontà di conoscere da vicino quella storia che hanno letto sui libri, le teorie del/sul genere, le esperienze e le analisi prodotte dai movimenti femministi; narrative collettive, che forse non si collegano in modo intuitivo alla quotidianità di chi è donna nell'università e nella società di oggi, dove “collettivo” ha via via perso significato, ma non sono invece aumentate la qualità della vita, la possibilità di progettare il futuro, la libertà di movimento (all'interno della scala sociale come delle strade cittadine quando si fa sera, diciamo). C'è qualcosa che, con i dovuti distinguo, quella storia e quelle analisi possono ancora insegnarci? Posso mettere in pratica la teoria?
Ci diciamo tutte che l'età delle donne che hanno preso parte è di per sé una ricchezza, in questo senso, perché dai 20 ai 60 tutte sono rappresentate; semplifico così la riflessione emersa sul tema della intergenerazionalità del seminario: se per le più giovani il riferimento al passato è una tappa avvertita come necessaria per provare a immaginarsi nel futuro, per le più grandi è altrettanto fondamentale il confronto con queste altre generazioni, illuse dalla storia di aver ereditato per nascita conquiste e diritti anche in quanto donne, e poi schiacciate dall'evidenza di aver perso diritti, tout court, in quanto persone. Che cosa si è “perse per strada” il movimento femminista?
Gli anni e la diversità delle epoche fanno sì che la continuità delle esperienze divenga intermittente: un “filo”, come lo ha definito qualcuna, che a tratti si perde ma poi riemerge improvvisamente in altre zone della discussione; un filo dove però si formano a tratti dei veri e propri colli di bottiglia, che impediscono al sapere di circolare. E' allora necessario esplicitare le differenze che ci dividono (di età, di posizione, di fase della vita ecc.) per riuscire a condividere, per poter dire “io”, “noi”.

Il pubblico e il privato. Ovvero, il movimento femminista e la cultura di massa.
A lungo rimasta in filigrana nella discussione, come un subtesto che scorre sotterraneo, eccola qui, la vecchia coppia pubblico/privato fa capolino in modo esplicito nelle ultimissime battute. Appare nel contesto della riflessione sulle forme e il portato politico della parola in comune, e a chiamarla in causa è una delle ragazze più giovani. Lo fa in modo davvero acuto e originale (ora io lo espando un po' perché non resisto, visto che incrocia proprio il mio terreno di studi, ma insomma credo che il senso fosse questo): intere generazioni sono cresciute nell'epoca della televisione commerciale, un'epoca in cui questo mezzo ha assunto crescente rilevanza, persino primato, rispetto ad altre agenzie di socializzazione. Tra i molti paradossi che questo ha creato, ce ne è uno che ci riguarda direttamente, indipendentemente dal fatto che siamo in prima persona consumatrici di televisione o meno: “siamo abituati a vedere racconti di problemi privati fatti da donne a conduttrici televisive donne, a cui anche noi a volte partecipiamo come pubblico, ma questa abitudine alla confessione e al confronto, che sarebbero fondamentali, non si estende mai ai rapporti faccia a faccia; nella vita reale occasioni di scambio allargato come in questo seminario non avvengono mai; le donne non parlano fra sé”.
E' vero, il confronto su temi personali e intimi avviene oggi preferenzialmente entro i pubblicissimi salotti televisivi, unica arena in cui, finalmente, sembra aver ritrovato la parola anche quella “maggioranza silenziosa” a cui le avanguardie femministe guardavano con diffidenza. E mentre in tv la testimonianza diretta e il privato divengono protagonisti indiscussi dello spettacolo, nella vita di tutti i giorni mancano occasioni in cui confrontarsi e fare quello che non si fa nei talk show: mettere in dialogo il proprio vissuto per realizzare il passaggio dall'individuale al generale, che è l'unica condizione per la soggettivazione e l'azione politica.
C'è una relazione con il movimento femminista? - interrogativo che mi viene rivolto alla fine della discussione - E' successo questo? Quel privato che abbiamo con ogni forza sdoganato, di cui abbiamo affermato la rilevanza in quanto politico, è stato interamente sequestrato dai media? E' anche “colpa nostra” se si è prodotta non la politicizzazione, a cui il movimento mirava, ma la mera pubblicizzazione a fini di intrattenimento della sfera privata?
Non so se ho interpretato correttamente, ma mi sembrava una questione rilevante...

Elisa Giomi

1 commento:

teresa ha detto...

1- Ha senso fare un discorso di genere oggi che si rende necessaria una riaffermazione dei diritti umani ad un livello più generale? Il senso è dato, probabilmente, proprio da questa più generale esigenza di affermare diritti a qualunque livello. Purtroppo il mondo in cui viviamo si è fortemente ancorato al rapporto noi-gli altri, dove noi siamo il punto di partenza e quello di arrivo, mentre gli altri sono “solo” l’universo con cui dobbiamo in continuazione fare i conti. In questo senso, proprio per superare l’impasse di appartenere ad un “noi” che di volta in volta cambia faccia a seconda della prospettiva in cui ci immergiamo, diventa impellente riprendere il filo interrotto o intermittente della questione di genere. Si tratta proprio di acquisire uno spazio identitario dal quale muoversi per contrapporsi alla imperante e maschile logica della tolleranza, uno spazio in cui identificare la “differenza” non come un handicap con il quale fare i conti, ma come una ricchezza a partire dalla quale costruire non un mondo di uguali ma, piuttosto, un universo di identità diverse legate da un unico filo conduttore, l’umano, che lega tutti sullo stesso piano. Così affermare il valore della differenza, a partire da quella assolutamente primaria e imprescindibile, qual è la differenza sessuale, può costituire un punto di partenza per la valorizzazione di ogni differenza e la sua trasformazione da elemento di disgregante pericolo a base di un sentire comunitario.
2- Che cosa vuol dire femminile (come vissuto personale e come modalità relazionale con gli altri, uomini o donne lontani da una esigenza di affermazione della radice di genere di cui sono inconsapevoli portatori)? Paradossalmente, almeno ad un livello più “quotidiano” e poco filosofico sembrano oggi essere più gli uomini a sottolineare le differenze che intercorrono tra i sessi, mentre le donne sembrano crogiolarsi dentro una conciliante e sicura rete di “conquiste” di cui non solo si è persa la traccia originaria, al punto che per qualcuna, specie le più giovani, è un’acquisizione talmente naturale da non richiedere ulteriori riflessioni, ma che, addirittura, sembrano affondare in un passato tanto lontano da essere sentito come “storia”, ovvero come qualcosa di dato, definitivamente concluso e assodato. Sono d’accordo che forse si potrebbe ripartire proprio da qui, dalla messa a fuoco delle tante cose che il movimento femminista ha prodotto e dalle tante cose che ha lasciato in sospeso e che ci legano all’interno di questo spazio di riflessione, nella loro bruciante attualità.
3- Così l’essere donna “senza farci caso”, se da un lato è significativo di una risorsa a cui attingere seguendo l’istinto primario naturale dell’umano, dall’altro è anche, a mio avviso, sintomatico di quella parvenza di “naturalità” di cui sembra necessario sbarazzarsi se vogliamo che l’istinto si faccia “formatore di coscienza”.
4- Questione di metodo: riflessioni femminili sulla questione di genere mi sembra che siano alla base di qualunque pratica “del femminile” in qualunque contesto. Queste però necessitano di un ambiente in cui possano formarsi liberamente trovando forme e modalità che possano appartenerci e riflettere il sentimento dell’essere donne, soggetti particolari in un contesto universale. Sono convinta che a questo livello sostanza e forma si debbano intrecciare perché la differenza di genere passa anche (forse innanzi tutto) attraverso una diversa “pratica della vita”. Così ben venga l’incontro e la discussione con gli uomini, senza però che questo assuma in nessun modo i termini di un confronto e senza che si riduca ad una mera differenza nel modo di “essere insieme”. Quello che voglio dire è che, a mio avviso, non si tratta di confrontare il mio modo di “essere al mondo”, in quanto donna, né il mio modo di “essere con il mondo”, ancora in quanto donna, con la pratica maschile della vita. Sono favorevole all’incontro, alla sensibilizzazione e alla messa in discussione del valore della differenza di cui come donna mi sento portatrice con l’universo maschile che vorrà farsene carico, ma sono refrattaria all’idea di usare ancora pratiche e modalità maschili come pietra di paragone non solo per una presa di coscienza che non lasci più al caso il sentimento della mia femminilità, ma neppure per la costruzione di un percorso che dal soggetto-donna muova verso un mondo universale.