martedì 5 maggio 2009

Oggetto Mandana - report 29 aprile

Devo ammettere che è con estrema difficoltà che mi accingo a raccontare la presentazione fatta da Mandana, un racconto che, nell’ascolto del gruppo, si è fatto via via rabbia, commozione, partecipazione ad un’esperienza del corpo che passa attraverso la malattia, la sofferenza, la cura, e la paura di dover ricominciare tutto daccapo.. Mandana dà un titolo al suo racconto, un titolo che pone l’accento su una specificità del funzionamento del corpo femminile che diventa non solo il luogo della differenza tra gli uomini e le donne, ma anche il luogo in cui le donne “soffrono” la ricerca di identità.
Il titolo è: “Corpo di donna”.
Mandana apre la sua presentazione partendo dalla considerazione che, fino a non molto tempo fa, parlare e, ancora di più, scrivere del corpo femminile era tabù. Il primo tentativo di superare questo tabù (io aggiungo, in epoca moderna) si deve a Virginia Woolf, che nel 1922 scrive a proposito di menopausa attivando, ovviamente, la censura maschilista.
Ma da dove nasce questa difficoltà/impossibilità di parlare del corpo delle donne? Perché per le donne è così difficile dare voce alla nostra corporeità?
Perché il corpo femminile è più “esposto”, suggerisce Mandana; e perché (e qui il coro è stato unanime) le donne attraversano il corpo alla ricerca della loro identità, nel senso che, laddove per gli uomini il corpo è oggetto (di desiderio), per le donne esso permane nella sfera del soggetto.
Culturalmente e storicamente si è cominciato a scrivere le donne a partire dal corpo. In alcuni casi, soprattutto nelle culture orientali, parlare del corpo diventa per le donne uno strumento di ribellione, il modo per scardinare un tabù che, ancora oggi dopo secoli di storia, continua ad essere vitale.
Negli ultimi anni, in occidente, il discorso sul corpo femminile si è infittito e sembrerebbe aver scardinato i pregiudizievoli orpelli di cui era stato rivestito: così è abbastanza facile oggi sentir parlare, anche in tv, di ciclo, maternità, allattamento, al punto che specie tra i ragazzi più giovani l’argomento “ciclo”, ad esempio, non è più un tabù. Ma che cosa significa, ancora oggi, parlare del corpo delle donne? A che cosa viene riferita l’esperienza della corporeità al femminile?
Nonostante sia passato quasi un secolo dai primi tentativi della Woolf, e malgrado le battaglie e gli sforzi di tante donne che ci hanno preceduto per uscire da questo cliché, sembra che (e forse per noi donne per prime) la dimensione del corpo in riferimento alla femminilità non sappia prescindere dalla sua funzionalità riproduttiva. Ecco, allora, che il corpo femminile si riduce all’altalena di ormoni che si produce in relazione alla possibilità di partorire, il corpo delle donne non è che un utero, e l’utero non è che un vaso, un contenitore, una forma che si presta ad accogliere una sostanza che non è mai femmina. La femminilità non è sostanziale. E questo spiega la ritrosia a parlare di “menopausa”, il momento in cui, non potendo più assolvere alla sua funzione, la donna-vaso non ha più una precisa collocazione sociale e culturale. Si pensi che in alcune tribù arabe la donna in menopausa acquista in qualche modo una connotazione maschile, “diventa un uomo” e, per questo, entra nella sfera del potere ponendosi a capo delle donne dell’harem.
La perdita della fertilità disorienta gli uomini che si trovano a dover relazionarsi con un essere (la donna in menopausa) di cui non riconoscono più la funzione, ma ancora di più disorienta le donne che, culturalmente attaccate all’idea di sé in quanto madri, vivono l’ingresso in questa fase non più fertile con vergogna, timore, senso di colpa. E, soprattutto, nel silenzio e, fin dove è possibile, nell’oblio. Non a caso, infatti, mentre l’inizio del periodo fertile è salutato da riti individuali se non sociali (ad es. in Iran la prima mestruazione è salutata con una festa dalle donne della famiglia), così come la maternità è festeggiata e simboleggiata con fiocchi e buffet; non ci sono esempi festosi di rituali che accompagnano l’ingresso della donna in questa terza fase dell’esistenza. E si, perché la vita corporea delle donne si può riassumere in tre fasi: ciclo, maternità, menopausa, a ribadire, ancora una volta, come le donne in passato si siano pensate e continuino a pensarsi nel presente in rapporto al loro essere necessarie alla riproduzione. Strumento di riproduzione, dunque, non solo per gli uomini, ma (ed è questa l’impasse da cui è così difficile uscire) prima ancora per le donne.
Esiste una simbologia legata alla menopausa?
A questo punto Mandana introduce un saggio di un’autrice americana, Star Coulbrooke, dal titolo “Le dee dell’isterectomia”, in cui viene affrontato il tema dei riti di passaggio nelle donne di mezz’età. In questo saggio l’autrice racconta l’esperienza devastante di una menopausa indotta farmacologicamente a fronte di una malattia che si risolve nella necessità di sottoporsi ad isterectomia. In assenza di simboli a cui aggrapparsi e di riti a cui affidare un’esperienza di consolazione, la Coulbrooke si affida alla propria capacità creativa e inventa un rituale, assolutamente personale, attraverso cui esorcizzare la paura dell’intervento. Crea una maschera a cui attaccare oggetti di vario tipo (è solo un caso se uno dei primi oggetti scelti è un tampax?), che diventa il simbolo privato e personale della lotta contro la malattia, la paura e il senso di colpa che l’accompagna.
Questo saggio serve a Mandana per introdurre la sua vicenda personale, la sua esperienza della malattia, un cancro al seno contro cui combatte da più di un anno e che, ancora oggi che è guarita, la vede costretta a sottoporsi a cure e controlli. Di cui, come molte donne nelle sue condizioni, non si libererà mai più.
È difficile per me dar conto della sofferenza che questo vissuto si porta dietro, dell’imbarazzo e del dolore che serpeggiava tra noi che ascoltavamo partecipi. È difficile scrivere gli occhi lucidi e le lacrime palesi di qualcuna, il senso di impotenza che ci ha pervaso, la rabbia che ci ha devastato.
È difficile raccontare la gratitudine di tutte nei confronti di Mandana che si è messa a nudo parlandoci della sua malattia, delle implicazioni emotive e psicologiche di una menopausa indotta, della depressione che si fa strada e si impone a seguito della terapia.
È, prima di tutto, un invito alla prevenzione quello che ci fa Mandana, invito a non lasciarsi sopraffare dalla paura e a prendersi cura in maniera consapevole del proprio corpo; perché solo rimanendo in contatto con il proprio corpo le donne possono sottrarsi alla concezione del “corpo-contenitore” di matrice maschilista. Ed è un invito ad imparare a chiedere aiuto, a servirsi di quelle associazioni (come l’associazione Serena che opera a Siena) che possono aiutare le donne a farsi carico e a metabolizzare un’esperienza tragica che, tuttavia, la solitudine rischia di incancrenire ancora di più.
Mandana ci ha parlato ancora del sentimento di frustrazione della femminilità che si vive in questi casi, dell’esperienza della diversità a cui il cambiamento del corpo costringe, quel corpo che, una volta vissuto come una benedizione, diventa ora un nemico che avvelena l’anima. È un’esperienza devastante, ci dice Mandana, per la quale si rende necessaria la complicità maschile (almeno per riuscire a fronteggiare la sensazione di colpevolezza che l’accompagna).
“C’è differenza nel modo di affrontare la malattia tra gli uomini e le donne?”, chiede Sonia.
“Gli uomini muoiono in seguito a malattie in percentuale maggiore delle donne, ma affrontano la malattia con una maggiore dignità, sebbene abbiano più difficoltà delle donne a parlarne”, è la risposta di Mandana.
Ancora Sonia si chiede se i controlli preventivi possano aiutare anche da un punto di vista psicologico permettendo di intervenire per tempo, ma Mandana sottolinea quanto sia difficile trovare consolazioni di fronte al pensiero devastante della morte.
A questo punto Pina ci presta la sua voce per chiedere a Mandana in che modo questa sua esperienza si configura come “oggetto” di queste nostre presentazioni, in che modo quest’esperienza ha costituito per lei un momento fondante del suo percorso di costruzione di un’identità di genere.
“Perché quest’esperienza ha cambiato la mia vita, per rabbia rifiutavo l’idea di farmi curare, sentivo di aver messo in pericolo la vita di mia figlia e di mia nipote. Ed è solo pensando a mia figlia che ho accettato di farmi curare”, è la risposta di Mandana.
Quello che emerge dalle considerazioni fatte nel contesto di questa presentazione è che con la malattia si produce una dissociazione tra la mente e il corpo, dissociazione favorita dal sistema medico che si prende cura solo del corpo-oggetto; dissociazione prodotta dalla medicina patriarcale che, come suggerisce Lola, non solo non aiuta le donne, ma diventa strumento di violenza non tenendo in nessuna considerazione le implicazioni psicologiche che trasformano la malattia in menomazione. È probabilmente vero quanto suggerisce Pina, e cioè che scavando a fondo tutta la questione femminile/maschile si risolve nella fisiologica impossibilità dei maschi di mettere al mondo figli; ed è probabilmente vero che, seguendo ancora i pensieri di Pina, il linguaggio di un corpo che si modifica (pensando alla menopausa) acquisisce una violenza che sovrasta la mente; ma è altrettanto vero (come sostiene Lola) che si rende necessario per le donne emanciparsi da quella colpevolezza atavica che fa delle donne a cui è preclusa o che si precludono la maternità, delle donne mancate.
So di non essere stata esaustiva e me ne scuso, ma la mia preoccupazione è stata quella di trovare le parole per non essere indelicata, pur cercando di dare un’idea di quanto in profondità il condividere l’esperienza di Mandana ci abbia portato.
È stato un gesto di coraggio di cui, noi tutte, cara Mandana, ti ringraziamo..

8 commenti:

Lola ha detto...

"Tra le donne c'è il desiderio frequente di parlare del corpo. Si tratta di un desiderio femminile che, come altre cose che ci importano, ad esempio, la pace, la giustizia o la lingua materna, serve a donne e uomini. Perché le donne sappiamo che quando parliamo del corpo non facciamo riferimento al neutro che pretende essere universale, al famoso neutro dei libri di pensiero astratto che "oggettivizzano" l'esperienza viva, quel neutro tanto criticato dal femminismo. Le donne sappiamo che il corpo umano, come l'esperienza, esiste solo al femminile o al maschile. (...) L'esperienza di essere corpo è molto spesso, per una donna del nostro tempo, una esperienza confusa"
I racconti bellissimi di Teresa e di Mandana evocano in me le parole di Maria Milagros Rivera Garretas (storica spagnola) che vi ho tradotto in fretta. Chi è interessata trova il testo completo in spagnolo sul sito:
http://www.ub.edu/duoda/web/textos.php?lang=1&t=3&s=6&ss=2&id=31

teresa ha detto...

Mandana, che ha qualche problema col blog, mi ha chiesto di inserire questo commento. Ed io volentieri...

QUELL’ ATTIMO

Mi sveglio come tutte le mattine. Preparo la colazione per tutti. A tavola parliamo delle solite cose. Mia figlia scappa per andare a prendere il pullman per la scuola. Mio marito mi saluta e mi raccomanda di chiamarlo appena so qualcosa.
Io con calmo comincio a vestirmi. Una giacca di lana, colore arancione e i pantaloni jeans. Canticchio un motivetto perfino a me sconosciuto. E’ un giorno come tutti gli altri, il mio ginecologo mi aveva assicurato che stavo bene e tutto andava per il meglio. Io mi sento bene , in forma perfetta. Faccio questo esame per semplice scrupolo.
Mi trucco, pettino i miei capelli folti e ricci e con un fermaglio li raccolgo. Esco da casa, c’è l’aria fresca e limpida degli ultimi giorni d’inverno. Entro in macchina, la radio ad alta voce mi accompagna lungo tutto il tragitto. Arrivo alla destinazione, continuo a canticchiare, faccio la fila, l’attesa è lunga, ogni tanto mi dico ‘spero che tutto vada bene’. Sono tranquilla, mi chiamano. Entro in un camerino, mi tolgo i vestiti…

Esco. Non sento più l’odore dell’arrivo della primavera. Il primo pensiero che mi viene in mente è mia figlia. Amo fare lunghe passeggiate con lei, prendere un caffè al bar e fare due chiacchiere tra madre e figlia. Mi domando se potrò più fare passeggiate con lei. Un nodo mi stringe la gola. Non canticchio più quel motivetto sciocco. La gente che mi passa accanto sembra fantasmi deformi. Ho la sensazione che attraversino il mio corpo per lacerarlo ancora di più.
Arrivo a casa, mi guardo nello specchio, non mi conosco, un altro io mi ha posseduto.
Il mio corpo non è più mio e la mia anima vola sulle montagne più lontane dal mio cuore, per nascondersi dal dolore. Io non sono più io…

Anonimo ha detto...

Ho letto il commento di Mandana postato da Teresa e mi sono commossa. Purtroppo per esperienza di figlia capisco la sensazione che Mandana ha provato perchè l'ho vista negli occhi della mia mamma la paura di lasciarmi sola e io mi sono sentita quasi in colpa di essere solo io la sua ragione di vita e non anche altro..Stupido vero?E soprattutto, parlo sempre da figlia, non è facile stare vicino ai propri genitori se questi non si confidano e non si aprono con te..Forse la mia mamma avrebbe voluto che il momento in cui cominciassi a preoccuparmi per lei e a prendermi cura di lei arrivasse il più tardi possibile ma la vita è strana e forse ora sto cominciando a capire che da ragazza sto diventando piano piano donna perchè in un anno mi sono ritrovata in mezzo ai problemi da adulti e all'inizio mi sono spaventata e mi sono persa. Adesso piano piano sto cercando di recuperare il filo della matassa. Comunque mi complimento per il coraggio che Mandana ha avuto nell'affrontare la malattia e nel parlarne. Adelaide

mari ha detto...

Care ragaze,
sono mari, sono venuta solo una volta ai vostri primi incontri e poi mai più, perchè vivo a carrara e, dato che le distanze interiori sono a volte più paralizzanti di quelle fisiche, anche perchè forse per me questo non è il momento giusto per una tale "immersione" in me stessa...
vi leggo però, e rifletto da lontano sui vostri canovacci insieme a voi...
questa cosa del corpo delle donne, per esempio, mi interessa molto; del corpo niente affatto neutro, del nostro corpo come oggetto di pratiche (culturali, sociali, mediche) maschili, e della difficoltà di tasformarlo in soggetto, e di rappresentarci A PARTIRE da esso, ma secondo i nostri desideri più che nei termini in cui i discorsi dominanti se ne sono appropriati nei secoli.
E' un tema che ho sempre provato ad approfondire e nel quale, come spesso accade nella vita, non so ancora se per per un caso o un'urgenza non meglio definibile, mi sono imbattuta in occasione dell'esperienza della gravidanza e del parto della mia amica....e mi sono accorta che i discorsi intorno a questo momento della vita delle donne sono un concentrato di stereotipi maschilisti, da un lato, e di passione, consapevolezza, volontà e curiosità, dall'altro...
e nel merito mi sembra che i temi legati al parto possono spostare i termini della riflessione nel senso di spingerci a chiederci quale sia il senso dell'approccio medico prevalente, quale sia l'idea, molto culturale come sapete, di "natura", che riguarda il parto e il corpo della donna, quali sono i termini e i significati dell medicalizzazione del parto rispetto al trattamento della malattia, e quale, di conseguenza, il ruolo della tecnica, del dolore e del suo controllo, e della libertà di scelta.
Se c'è un momento della vita di una donna in cui è difficile fino ai limiti dell'impossibile distinguere i propri desideri, dall'immagine di femminilità che abbiamo interiorizzato, quello credo sia la maternità. Ed è un tema così denso, e così onnipresente nel percorso di ognuna di noi, per lo meno in quanto tutte "figlie", che una riflessione sul "corpo di donna" credo dovrebbe considerarlo. nelle mie peregrinazioni insonni, ho trovato un bel blog in cui, a dispetto dell'intitolazione extratecnica e settoriale, si parla di queste cose con acume, generosità, e terrore e condivisione, e ho pensato di segnalarlo qui, anche per onorare gli originari impegni di trovare i "nodi" di quella rete che si voleva costruire.
un saluto a tutte, e grazie dell'impegno, e grazie delle storie :)
mari
http://epidurale.blogspot.com/

mari ha detto...

Care ragaze,
sono mari, sono venuta solo una volta ai vostri primi incontri e poi mai più, perchè vivo a carrara e, dato che le distanze interiori sono a volte più paralizzanti di quelle fisiche, anche perchè forse per me questo non è il momento giusto per una tale "immersione" in me stessa...
vi leggo però, e rifletto da lontano sui vostri canovacci insieme a voi...
questa cosa del corpo delle donne, per esempio, mi interessa molto; del corpo niente affatto neutro, del nostro corpo come oggetto di pratiche (culturali, sociali, mediche) maschili, e della difficoltà di tasformarlo in soggetto, e di rappresentarci A PARTIRE da esso, ma secondo i nostri desideri più che nei termini in cui i discorsi dominanti se ne sono appropriati nei secoli.
E' un tema che ho sempre provato ad approfondire e nel quale, come spesso accade nella vita, non so ancora se per per un caso o un'urgenza non meglio definibile, mi sono imbattuta in occasione dell'esperienza della gravidanza e del parto della mia amica....e mi sono accorta che i discorsi intorno a questo momento della vita delle donne sono un concentrato di stereotipi maschilisti, da un lato, e di passione, consapevolezza, volontà e curiosità, dall'altro...
e nel merito mi sembra che i temi legati al parto possono spostare i termini della riflessione nel senso di spingerci a chiederci quale sia il senso dell'approccio medico prevalente, quale sia l'idea, molto culturale come sapete, di natura, che riguarda il parto e il corpo della donna, quali sono i termini e significati della medicalizzazione del parto rispetto al trattamento della malattia, e quale, di conseguenza, il ruolo della tecnica, del dolore e del suo controllo, e della libertà di scelta.
Se c'è un momento della vita di una donna in cui è difficile fino ai limiti dell'impossibile distinguere i propri desideri, dall'immagine di femminilità che abbiamo interiorizzato, quello credo sia la maternità. Ed è un tema così denso, e così onnipresente nel percorso di ognuna di noi, per lo meno in quanto tutte "figlie", che una riflessione sul "corpo di donna" credo dovrebbe considerarlo. nelle mie peregrinazioni insonni, ho trovato un bel blog in cui, a dispetto dell'intitolazione extratecnica e settoriale, si parla di queste cose con acume, generosità e terrore, e condivisione, e ho pensato di segnalarlo qui, anche per onorare gli originari impegni di trovare i "nodi" di quella rete che si voleva costruire.
un saluto a tutte, e grazie dell'impegno, e grazie delle storie :)
mari
http://epidurale.blogspot.com/

Anonimo ha detto...

Non c’ero alla presentazione dell’oggetto di Mandana “Corpo di donna” ma grazie alle parole di Teresa, delicate ma allo stesso tempo dirette, ho potuto provare ad immaginarmi in aula M con le altre.

Cercherò di essere breve, dato che le cose da dire sarebbero tante.

Prima di tutto credo che sia complicato e difficile parlare del corpo della donna in riferimento a due culture (la nostra occidentale e quella in cui Mandana ha vissuto per molto tempo) così lontane e diverse ma con moltissimi elementi in comune. Prima di poter parlare della condizione della donna araba dovrei avere un’idea chiara di quella della donna occidentale ed invece mi sto ancora ponendo mille domande sulla nostra condizione nella società in cui viviamo.

Detto questo credo anche io che una riflessione sul corpo della donna sia cruciale, fondamentale e tappa obbligata per tutti coloro che vogliono prendere coscienza delle problematiche relazionali nel rapporto uomo donna. Diciamolo: il nostro corpo è bello, bellissimo, rotondo, sinuoso, armonico… provoca distrazione e turbamento ed è per questo che, secondo me, è coperto totalmente o scoperto totalmente.

E’ un tentativo degli uomini di ridurre la donna ad un estremo (solo un corpo, o un non-corpo) per farla uscire dalla dimensione di persona che è partecipe della vita sociale e ridurla ad una non-persona. Forse è vero ciò che all’inizio di questo percorso di autoconsapevolezza mi sembrava eccessivo e cioè che gli uomini ci temono e temono il nostro corpo, desiderano esercitare un controllo su di esso (lo coprono o lo scoprono) e desiderano esercitare un controllo anche su questioni prettamente femminili come l’aborto, la gravidanza e così via. Il corpo della donna viene, forse, così controllato anche nella sua funzione riproduttiva attraverso la separazione netta di due tipi di donna che da sempre sono presenti nella mente dei maschi: la donna moglie-madre, un vaso da riempire e da fecondare e la donna-prostituta un vaso da riempire a scrollandosi di dosso ogni responsabilità riguardante il concepimento.
Arrivo ora all’argomento menopausa trattato da Mandana. Mandana dice che la donna in menopausa non trova più una collocazione sociale. In che senso? A quale cultura si riferisce? E’ ancora valido per le donne che entrano oggi nel periodo della menopausa? Non lo so, è un argomento che varrebbe la pena approfondire. Se faccio riferimento alla mia esperienza personale non mi sembra che il parlare di menopausa sia un tabù. E’ vero però che, forse, nell’immaginario collettivo la donna in menopausa assume connotazioni negative. E’ vero anche che sempre più donne in età da menopausa non trovano spazio in tv, però forse qui non c’entra la menopausa ma l’età.

Continuando a scorrere le parole di Teresa leggo che secondo Mandana “l’inizio del periodo fertile è salutato con festeggiamenti mentre non ci sono riti per l’ingresso nel periodo della menopausa”. Anche qui Mandana si riferisce all’Iran?

A questo proposito vorrei dire due cose:

In Italia la prima mestruazione non è festeggiata, anzi è vissuta con imbarazzo credo. Fino a non molto tempo fa anche la parola mestruazione veniva detta sottovoce oppure si diceva “ quella cosa”, “quell’affare”… In più, per esempio, non molto tempo fa alle donne non era permesso entrare in chiesa nel periodo del ciclo mestruale.
Il motivo per cui la menopausa non è festeggiata non può essere quello per cui comunque la menopausa è indice del fatto che siamo invecchiate? Non si può collegare tutto alla paura della morte di cui l’invecchiamento può essere un primo sintomo? Inoltre, a quanto ne so, con la menopausa giungono anche complicazioni a livello fisico ed ho avuto modo di conoscere donne che grazie all’utilizzo di farmaci hanno potuto ritardare l’arrivo della menopausa, ritardandone così anche gli effetti negativi.
Anche gli uomini sono ossessionati dall’essere efficienti dal punto di vista riproduttivo, infatti mi sembra che anche il parlare di andropausa possa essere considerato un tabù.

Anonimo ha detto...

Mandana ha infine toccato un argomento, già trattato da Lola, sul quale riterrei opportuno soffermarci nuovamente. Mi riferisco al fatto che troppo spesso la medicina cura il corpo delle donne nello stesso modo in cui lo farebbe con gli uomini. Questa estate ho subito anche io le conseguenze di ciò: mi è stato prescritto un antibiotico non considerando il fatto che nelle donne, nella gran parte dei casi, porta al verificarsi di altre problematiche, perciò sono stata costretta ad un’ulteriore cura. Vorrei sapere se ci sono degli sviluppi in proposito e se ci sono medici sensibili a questo tipo di problematiche. Perché non riparlarne?Per quanto riguarda l’ultima parte del report di Teresa non posso far altro che ammirare Mandana per il coraggio che ha avuto e ringraziarla per aver condiviso con noi un’esperienza così difficile ed intensa.
Vorrei concludere citando due righe estratte dal testo di una ragazza di Lettere e Filosofia di Siena che ho letto nel libro di “Cera di Cupra” (quello relativo al concorso, per intenderci) e che mi sembra possano riassumere bene la problematicità e la complessità del rapporto fra noi donne e il nostro corpo. E’ vero, è forse dal prenderne consapevolezza che può prendere vita il percorso attraverso il quale ogni donna pensa a se stessa in quanto tale, in un contesto sociale.

L’autrice del testo scrive a proposito del periodo della sua adolescenza:

“Cos’ero a quell’epoca? Non sapevo camminare sui tacchi ma portavo il reggiseno, avevo l’acne, e una volta al mese mi riempivo di antidolorifici per affrontare quel curioso avvenimento fisiologico che mia nonna nominava in diciassette modi diversi e sempre con un’aria da cospiratrice. Il fascino da ninfetta era toccato tutto alla maliziosa Lolita Nabokov, lasciando noialtre, tredicenni non sublimate dalla fantasia letteraria, a guardarci perplesse di fronte allo specchio, chiedendoci cosa non andasse. E perché mai la gonna che ieri stava a pennello ora era evidentemente troppo corta, e la t-shirt troppo stretta; perché quel corpo, con il quale avevamo vissuto felicemente più di una decina d’anni, se ne stava lì a darci battaglia. Senza trovare puntualmente una risposta. Poi, con gli anni, l’abbiamo trovata. (…) Passando per decine di riti di passaggio, con un occhio sempre puntato sul riflesso delle vetrine per vedere se tutto il lavoro fatto (…) fosse ancora lì, abbiamo capito che tutto quel piangere, quel provare vestiti, tutto quell’amare inutilmente e quel confidarsi con le amiche, quei primi disastrosi tentativi di trucco, quel primo bacio, quella prima volta, quell’essere sempre sottovalutate, tutto quel tempo, passato in buona parte a tentare di dimostrare qualcosa a qualcuno, o magari anche solo a noi stesse ci aveva trasformato. In qualcosa di doloroso e meraviglioso e diverso ed inspiegabile. Pure da noi, ormai così occupate ad esserlo da non essere più interessate a definirlo”.

Anonimo ha detto...

Mandana, nella presentazione dell’oggetto, si è concentrata su due punti focali: le tre fasi di vita biologica della donna (mestruazioni, maternità, menopausa, concentrandosi soprattutto in quest’ultima) e la sua malattia; entrambe sono accompagnate da un senso di frustrazione e forse, per me, questa è la parola chiave: FRUSTRAZIONE. Per quanto riguarda il primo punto, ovvero le fasi di una donna, per adesso io sto vivendo solo la prima e se un tempo parlare di ciclo o avere il ciclo era considerato un qualcosa di cui vergognarsi, oggi non è più cosi. La mia prima mestruazione è arrivata a 15 anni e vi posso assicurare che è stata accompagnata da un grande senso di frustrazione perché le mie amiche, anche quelle che avevano 13 anni già avevano avuto il ciclo ed erano sempre lì a parlare dei loro dolori, a parlare di quale marca di assorbenti fosse migliore. Fino ai 15 anni mi sono sentita frustrata perché mi sentivo diversa e perché volevo essere come loro, non lo so forse era anche un modo per sentirmi accettata. Non mi sono mai considerata una bellissima ragazza ma quando ero piccola mi sono fatta molti complessi sul mio corpo e ho odiato il mio corpo, ho odiato i miei fianchi larghi, il mio seno piccolo e forse credevo che “diventando una signorina” (come mi diceva la mia mamma) anche il mio corpo sarebbe stato più quello di una donna, un corpo più bello. In realtà il mio corpo mi ha dato molti problemi dopo lo sviluppo perché i miei cicli erano irregolari e quando ho cominciato ad avere i primi rapporti sessuali la frustrazione era di altro tipo.
Per me parlare di questo argomento è difficile e non riesco a parlarne a prescindere dalla mia soggettività, perché io e la mia fisicità non siamo mai andati d’accordo, spesso nemmeno mi guardo allo specchio perché quel corpo riflesso non lo riconosco.
Per quanto riguarda il secondo punto anche lì secondo me si può parlare di frustrazione. Non so cosa abbia provato Mandana e probabilmente è difficile immaginarlo, se non ci si passa ma frustrazione e paura della morte credo siano state le sue compagne per molto tempo. Non si riconosce più il nostro corpo e quel corpo che per anni ha funzionato cosi bene all’improvviso si ribella a va a colpire una delle parti più femminili della donna, il seno. Ci si sente diverse e si crea un distacco completo tra il nostro corpo e la nostra mente. Una cosa simile è successa alla mia mamma, non ha avuto nessun tumore ma un infarto che ha rischiato di farla morire e lei ha passato uno stato depressivo post infarto molto forte perché non se ne faceva una ragione del perché quel corpo l’avesse abbandonata ad un certo punto e credo che, anche se oggi sta bene, questa domanda se la ponga ancora.
Infine per quanto riguarda la riflessione sul sistema medico patriarcale di Lola, emerso durante la presentazione dell’oggetto, mi trovo d’accordo. Le cure di qualsiasi malattia, date ad una donna, portano effetti sul corpo della donna che la fanno sentire ancora più dissociata dalla sua fisicità. La mia mamma, ad esempio, a causa della Cardioaspirina ha continue emorragie dal naso e il corpo è pieno di ematomi e questo la porta a disconoscere sempre più il suo corpo. Le 3 fasi, di cui ho parlato prima, le ha passate tutte in modo travagliato: la prima mestruazione, ai suoi tempi, è stata vista con imbarazzo e ha sofferto per questo, il parto è stato fatto con il cesario e anche lì ha rischiato di morire, in menopausa è andata molto presto. Credo che per lei sia stata veramente dura. Ripeto, questo argomento non riesco ad affrontarlo con obiettività, perché è una cosa che tocca le mie esperienze personali.
Adelaide