mercoledì 21 gennaio 2009

l' outre-femme

Nel manifesto femminista di Carla Lonzi emergono in due filoni concettuali strettamente legati:
- da una parte la negazione dell'uomo, in quanto tiranno sia praticamente (nel non concedere autonomia) sia intellettualmente (in quanto costruttore di un'immagine predefinita della femminilità che va dall'attività di ogni giorno al campo sessuale).
- dall'altra l'identificazione della donna come altro dall'uomo, ossia l'affermazione della differenza

Questi due punti sfociano nel rifiuto delle femministe degli anni '60 di integrarsi completamente nel panorama politico di quegli anni. Pian piano i vari gruppi di donne si rifiutano di pensare la propria lotta come un appendice della lotta che, in quel momento storico, veniva considerata di importanza primaria: la lotta di classe. Nei metodi, nei contenuti, nelle azioni ne scorgono la matrice maschile. Le femministe di quegli anni invece, si pongono come primo obiettivo il delineare nuove modalità di azione che pongono le loro radici in uno specifico metodo: il “partire da sè”. Partire da sé significa ridare dignità a ciò che era stata sino ad allora l'esperienza di “ confino” dela donna, far riemergere un vissuto che sino ad allora era rimasto un ululato solitario al focolare.
Riunendosi in gruppi si riappropriarono delle loro esistenze violando gli schemi preimpostati, anche appunto di tipo politico- sociale rivoluzionario. Ciò che, forse, ho capito nel leggere questi documenti è la ragione per la mia avversione, varie volte radicalmente emersa, nelle discussioni a proposito del tema “intimismo sì- intimismo no”.
Mi sembra che partendo dal nostro gruppo di donne emancipate, l'esigenza di rientrare all'interno della casa, nell'intimo, sia un rispondere, un riflesso incondizionato ad un clichet imposto, clichet che ho sempre detestato contrassegnato da debolezza prima di tutto fisica, piagnistei e isterismi. Con questo non voglio negare che la formula del partire da sé sia effettivamente una lancia da scagliare nel mare degli universalismi, delle generalizzazioni delle sovrapposizioni identitarie forzate. Senza dubbio, come nel documento è sottolineato, è importante rivalutare il soggetto, l'individuo, (notare tutti termini possibili solo al maschile), la donna singola nel suo approcciarsi alla realtà. Ma bisogna tener conto dell'individualismo aggressivo che avvelena le nostre vite. In questo momento storico penso sia necessario un ritorno al pubblico piuttosto che al privato. I quadri di partito sono ormai caduti, le grandi riunioni di piazza si innestano sempre in un quadro di rivendicazioni economiche, non sono mai puramente ideologiche (nel senso di giudizio concettuale-tentativo di cambiamento della realtà). La vera rivoluzione ora non è certo diventare uomini nel gestire la sfera pubblica recidendo qualunque legame col privato, ma di sicuro aprire uno spiraglio in queste mura fatte di immagini in mondovisione è un compito che la prospettiva di genere non può esimersi dall'affrontare.
Per quanto riguarda le critiche che la professoressa Marzia Pieri ha avanzato al femminismo degli anni '70, descritto come fonte di mali quasi innominabili e la sorpresa carica di ironia (naturalmente benevola) di Elisa nell'osservare la tenacia con la quale soprattutto noi giovani abbiamo difeso questo nuovo dolcetto-reperto intellettuale qual è il femminismo, rispondo che probabilmente gli errori sono stati tanti e io non sono neanche in grado di comprenderli, ma non posso fare a meno ogni giorno di esprimere gratitudine a chi prima di me ha fatto delle lotte, il cui frutto si sta pian piano perdendo. Ringrazio chi prima di me ha creato il clima nel quale io ogni tanto posso tentare di imporre la mia voce. In realtà ritengo che gli errori che possono aver fatto le donne negli anni '70 siano stati comunque delle briciole, dei sassi contro cannoni che risuonano da secoli. Oltre tutto penso che l'autocritica sia uno strumento indispensabile, però penso che che spesso con l'autocritica si esuarisca dell'energia che potrebbe essere in maniera migliore veicolata. Non posso evitare di pensare a tutte quelle donne, che anche in Italia si pensi al sud, o ai cosiddetti paesi del secondo e terzo mondo in cui la condizione della donna è a dir poco spaventosa.
Mi ricordo di un cortrometraggio di una regista iraniana che ho visto al Santa Maria della Scala che mostrava come nel suo paese neanche i manichini avessero diritto ad avere forme naturali: una lama recideva-tagliava tutte le forme “tipicamente femminili”, tramite un'immagine fortissima di una lama rotante che si incide sulla carne. La durezza dell'immagine può sembrare a sproposito ma penso che in ognuno di noi possa risuonare, come dite voi, possa rievocare mutilazioni che spesso sentiamo inflitte alle nostre menti, sui nostri corpi.
Il discorso sul corpo mi sta particolarmente a cuore, cosa c'è di più individuale ma allo stesso tempo politico del corpo? La reificazione alla quale assistiamo impotenti giorno dopo giorno, il furto della nostra bellezza particolare (nel senso di individuale) che finisce nell'immondezzaio dell'imperfezione a causa di un criterio di plastica. Proprio il corpo può essere il trait d'union, l'aggancio, anzi il grimaldello (termine spesso usato nelle nostre conversazioni che ha degli echi freudiani niente male) capace di legare e nello stesso tempo scassinare, mutare il rapporto tra queste due fantomatiche sfere il privato e il pubblico, il personale e il politico. Dato che la privazione del nostro mondo privato-personale ha uno stampo politico, purtroppo nel senso senso più attuale del termine, ossia legato a logiche di mercato, noi dobbiamo politicamente, stavolta nel senso più proprio del termine, riappropriarci della nostra bellezza, sventoliamola, sbattiamola in faccia prima di tutto allo specchio che ci osserva spesso malevolemente. Questa è cura di sé. Non botulino, non creme che puzzano di acidi. Questa può essere una via per riagganciare la nostra mente al nostro corpo, questa sineddoche che in un primo momento pare superficiale, questo riprendere il nostro stesso corpo, è un'azione politica in quanto agirà anche nei nostri rapporti interpersonali e si spanderà come una macchia d'olio. Il tempo ci darà ragione. Chi fa le rivoluzioni raramente beneficia dei diritti conquistati, ci troviamo così spesso a fare dei discorsi che producono l'eco del vuoto dell'incomprensione, ma questi semi lanciati troveranno terre nelle quali germogliare.

I risultato della “triangolazione del desiderio” nella vita di ognuna di noi, che deriva direttamnte dal fatto che sempre si siano permessi di giudicarti, di esaminarti, di spezzettarti e ricomporti a loro piacimento, di infliggerti una forma viziata dalle loro esigenze, e tu rimani tutta la vita con questo corvo, questo fantasma che in alto a sinistra, controlla, redarguisce o vezzeggia a suo piacimento: non si è mai sole. Questa presenza assume diversi volti, il primo è senza dubbio il padre e poi via via i vari padri adottivi, sia persone che istituzioni. Chissà se questo è un fenomeno legato al patriarcato dopotutto chi ci osserva può assumere forme anche femminili, risulta comunque essere altro da sé, è esterno. Risulta essere senza dubbio un collare ad una libertà già di per sé malandata, intrinsecamente umana quindi sostanzialmente contingente.

L'ultimo punto che mi piacerebbe chiarire, è il mio continuo bisogno di strumenti culturali, come un' handicappata che non è più abituata a provare a camminare senza bastone oppure una bambina che ha perso il coraggio di imparare a camminare, ossia una persona che non si permette quasi più il lusso di pensare con la propria testa se non supportata da tesi altrui. Sono stata educata a leggere la vita sui libri, ho vissuto mille vite trasportata per mari e per terre mentali altrui. La vita è troppo breve i nostri talenti sono troppo pochi per poterci permette di pensare di essere o diventare tutto quello che vorremmo. Quando si capisce questo ci si può accontentare volentieri di un libro, una citazione, una canzone. Una delle mie citazioni preferite è, strano a dirsi, proprio di una donna, per di più sarda: Grazia Deledda. Parafrasandola: mi capita di provare nostalgia per vite non vissute, per luoghi non attraversati. E' una frase che comprendo appieno, che mi attraversa da capo a piedi.
Al di là di questo, nonostante anche nei nostri incontri mi erga a paladina del culturale-pubblico piuttosto che del privato, per la prima volta in vita mia, provo consapevolmente spavento nei confronti dei documenti brucianti di frasi e critiche femministe che balzellano nelle mie dita. La conquista in particolare, dopo 23 anni di pensieri, del fatto che donna si diventa non si nasce, dopo un più che decennale rifiuto della femminilità dato che quella che conoscevo, che il mondo mi proponeva, che molte donne intorno a me mettevano in scena, mi disgustava. Ad un certo punto mi sono riappropriata del diritto di essere qualcos'altro (rispetto al canone di femminilità imposta) che non fosse però solo la negazione di questo. Poi ho scoperto che la frase che riassumeva questa mio percorso, l'aveva già detta Simone de Beauvoir. Mi sono sentita derubata. Non tanto perchè ciò che pensavo essere una grande scoperta in realtà era già stata detta, quanto per la paura che anche i percorsi di “liberazione” siano precostituiti. La mia fiducia sconfinata nei confronti dei libri vacilla quindi, perchè non voglio fare in modo che anche questo pensieri che sento così personali subiscano le infiltrazioni accademicizzanti, istituzionalizzanti, che potrebbero immobilizzare nuovamente il mio cervello. Certo l'altra faccia della medaglia c'è, ed è il non sentirmi sola a combattere una battaglia di cui magari non raccoglierò tutti i frutti ma che vale la pena di combattere soprattutto in un Occidente logoro di valori e privo di prospettive che non siano d'implosione. Le conquiste sui diritti umani e delle donne sono senza dubbio il fiore all'occhiello di una società in lenta decadenza, ma è estremente importante battersi per far sì che non affondino nel mare della propaganda fasulla.
Forse avrete notato che ho usato spesso parole derivanti dal gergo militare, non perchè son nata in una società patriarcale, ma perchè penso che ci siano delle vittime, soprattutto se ci relazioniamo al mondo esterno (non occidentale). Esistono vittime anche sul fronte interno, sono però vittime in senso più metaforico, ciò che muore o viene violato sono parti di noi.

Ho voluto raccontare tutti questi pensieri perchè penso che il lavoro che stiamo portando avanti mi è stato d'aiuto soprattutto in modo sottile, sotterraneo nel mettere a fuoco delle questioni che giacendo di imputridivano dentro di me. Ora che le sto facendo venire alla luce e soprattutto ho il coraggio di poter pensare di poter cambiare qualcosa, anche solo dentro di me.
Queste mie “confessioni” hanno poi, volendo, un'ulteriore sviluppo: la de-costruzione di giochi di potere, lo smantellamento dei ruoli, schema che tra l'altro sta alla base della problematica di genere. Penso che rimettere in gioco, esporre il fluire contraddittorio dei miei pensieri su tematiche da noi affrontate, apra uno spazio ulteriore di libertà all'interno del gruppo, senza che ci si senta inchiodate-fissate in ruoli precostituiti, sfuggendo così alla logica del tertium non datur ed esperire serenamente le contraddizioni componendo i contrasti, però seriamente (non come Veltroni).

2 commenti:

Michela ha detto...

Mi sento di condividere completamente queste riflessioni di Veronica, sottolineando che l'idea di attribuire valenza politica a quegli aspetti della vita che tradizionalmente sono confinati nel privato delle donne non è, da parte mia almeno, un ricorso essenzialista o psicologizzante (o intimistico che dir si voglia). Io parto dal riconoscimeno dell'attribuzione culturale (di genere) alle donne di comportamenti, valori, modalità di rapporto che hanno valenza umana complessiva; e dal riconoscimento che la ruolizzaione di genere (alle donne i valori 'femminili', la distanza dal 'potere', gli obblighi di cura ecc.) ha distorto tutta l'umanità, donne e uomini, che sono individualmente diversi ma hanno in comune l'essere esseri umani, ciascuno particolare e universale - non 'con aspetti particolari' e 'qualcosa di universale', ma universale nella sua parzialità. E' un intreccio complicato, ma partirei dall'escludere radicalmente che l'universale sia 'neutro', cioè 'neuter=né l'uno né l'altro/a'. Se ci pensiamo, la concezione dell'universale come neutro è vuota e dunque tradisce la realtà di tutti gli esseri umani e di entrambi i generi. Ma pensare l'intreccio particolareXuniversale è veramente difficile.
PS Avevo scritto la prima parte ieri sera, il resto stamani. Mi è dispiaciuto dover andare via, il livello del discorso era molto alto, ne valeva la pena.

Michela ha detto...

Scusate, ovviamente il commento si riferisce all'altro post di Veronica, Essere femminista è partecipazione