Ho un po’ riflettuto se scrivere a caldo dell’oggetto presentato da Mariagrazia. Mi sono detta di sì, e così sono a scrivere appena uscita dall’incontro densissimo di oggi.
Desidero ringraziare ancora Mari dell’averci scelto per condividere un oggetto che, a distanza di due anni dalla morte di sua madre, è ancora, e forse lo sarà, caldo di dolore per lei, ma anche di amore infinito. E’ questo amore che forse le ha permesso di esprimersi con quella sobrietà che non si è mai riempita di sentimentalismo, che ha permesso alla sua parola di colorarsi di vita, di umanità.
Mari ha presentato una poesia di Pier Paolo Pasolini, la “Ballata delle madri”; non abbiamo letto immediatamente il testo, per cui lo inserirò quando Mari ha deciso di farlo leggere, dopo averne fatto una sorta di introduzione.
Il testo riguarda il rapporto che P. aveva con la propria madre, ma in generale il ‘modo’ di essere madre.
E’ una poesia dura, dai toni aspri, e lo è in particolare perché tocca una relazione, quella tra madre-figlia/o, che è la più viscerale.
Il suo testo ha più piani di lettura, a seconda del coinvolgimento emozionale che si prova nel leggerla, più o meno compromesso dal proprio vissuto.
Racconta tutta la contraddizione che c’è nel rapporto madre-figlia: è una poesia d’accusa, ma che parte e dà per scontato l’amore del figlio per la madre, per cui Pasolini può essere così aspro.
“Ho perso mia madre due anni fa”: in questo dolore è fondamentale per Mari “recuperare tutto”.La sua è la volontà caparbia di assomigliarle –per tenerla in vita- insieme a quella di trovare se’ stessa a prescindere da lei.
“Niente come mia madre è autrice del mio essere donna”: per questo Mari ne ha fatto l’oggetto del glossario, e la sua storia è un po’ riassunta da questa poesia.
Pasolini accusa le madri di essere vili –con toni da scelta quasi espressionista-: sotto tutta questa durezza di toni emerge una condanna culturale e sociale, che è quella di ritenere le madri responsabili di perpetuare la cultura dominante, nel senso che la trasmettono ai figli per il timore tutto materno di proteggerli, e quindi per plasmarli già atti a vivere nel ‘sistema’.
Per elaborare il suo dolore, Mari ha bisogno di oggettivarlo, per questo necessità il suo sguardo ha cercato nel ‘poesia della madre’del ‘900: per trovare le parole.
Il punto di partenza è in un’altra poesia di Pasolini, “Supplica a mia madre” [che ho inserito alla fine del testo].
Mari ne cita i versi: “sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori dalla ragione”. Dopo la morte della propria madre, con cui chiunque ha un rapporto morboso, l’impressione è proprio quella di sopravvivere in una confusione al di là della ragione. L’impressione è quella di rinascere. Ti ritrovi al mondo nuova: non sei più la sua proiezione. E’ il mistero, l’ineffabile. E’ come l’Annunciata di Antonello da Messina: è la maternità, non solo quella fisica e già realizzata, ma quella possibile. “La maternità, che io non ho vissuto, costituisce un grosso tratto della mia identità”. E per Mari un’altra parola per il glossario è “trasmissione”: il mestiere delle mamme è anche quello di preparare i figli al mondo, di dar loro i propri occhi.
Adelaide ora dà voce alla poesia:
Ballata delle madri
di Pier Paolo Pasolini
Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,
presi in un giro mai compiuto
d’esperienze così diverse dalle loro,
che sguardo avrebbero negli occhi?
Se fossero lì, mentre voi scrivete
il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
o lo passate a redattori rotti
a ogni compromesso, capirebbero chi siete?
Madri vili, con nel viso il timore
antico, quello che come un male
deforma i lineamenti in un biancore
che li annebbia, li allontana dal cuore,
li chiude nel vecchio rifiuto morale.
Madri vili, poverine, preoccupate
che i figli conoscano la viltà
per chiedere un posto, per essere pratici,
per non offendere anime privilegiate,
per difendersi da ogni pietà.
Madri mediocri, che hanno imparato
con umiltà di bambine, di noi,
un unico, nudo significato,
con anime in cui il mondo è dannato
a non dare né dolore né gioia.
Madri mediocri, che non hanno avuto
per voi mai una parola d’amore,
se non d’un amore sordidamente muto
di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,
impotenti ai reali richiami del cuore.
Madri servili, abituate da secoli
a chinare senza amore la testa,
a trasmettere al loro feto
l’antico, vergognoso segreto
d’accontentarsi dei resti della festa.
Madri servili, che vi hanno insegnato
come il servo può essere felice
odiando chi è, come lui, legato,
come può essere, tradendo, beato,
e sicuro, facendo ciò che non dice.
Madri feroci, intente a difendere
quel poco che, borghesi, possiedono,
la normalità e lo stipendio,
quasi con rabbia di chi si vendichi
o sia stretto da un assurdo assedio.
Madri feroci, che vi hanno detto:
Sopravvivete! Pensate a voi!
Non provate mai pietà o rispetto
per nessuno, covate nel petto
la vostra integrità di avvoltoi!
Ecco, vili, mediocri, servi,
feroci, le vostre povere madri!
Che non hanno vergogna a sapervi
– nel vostro odio – addirittura superbi,
se non è questa che una valle di lacrime.
È così che vi appartiene questo mondo:
fatti fratelli nelle opposte passioni,
o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di esser uomini.
Quest’odio verso le madri, è un odio che Mari ha provato verso sua madre: le ha fatto rimostranze per il fatto che lei volesse i figli bravi, che per non avere problemi con la vita dovevano accettare un certo stato di cose. Mari si è sentita oggetto di trasmissione di un cristianesimo “per chi si accontenti dei resti della festa”, di un concetto frustrante di “umiltà” catto-borghese.
La cosa bellissima della poesia è che Pasolini condanna la cultura e in qualche modo salva le madri, le capisce; per questo Mari si sente rappresentata dalla poesia: intanto perché capisci tua madre come donna e poi perché comprendi la ragione per cui le madri ti educano in un certo modo.
L’universalità di questo testo poetico per Mari sta nel fatto che sicuramente sua madre avrebbe potuta riferirla alla propria madre.
I racconti su sua madre delle amiche, le restituiscono un’immagine di lei molto anarchica, e Mari sente che da lei ha preso la sua anarchia. C’è qualcosa di insito nella maternità: la paura che le proprie creature possano essere felici, per quello che essere felici comporta. Anche donne libere, nella trasmissione della propria libertà, stanno attente a che i loro figli non ne siano feriti.
Pasolini pur urlando, difende la madre: così è nella prima strofa, che è opposta a tutte le altre: è come se parlasse di come, al di là di quello che esse insegnano, le (madri)donne fossero all’opposto.
Per Mari è l’”enorme contraddizione tra enorme amore/ enorme recriminazione”. Quando muore una madre vuoi capirla, e ti trovi davanti ad uno scoglio insormontabile: la madre è donna ( e compagna, e moglie…) e poi è madre. Per questo si attua una scissione tra l’essere donna completa e la preoccupazione per il desiderio di avere figlie libere, ma che poi soffriranno per questa loro libertà, perché la società le condannerà e le farà soffrire.
Una delle colpe di infelicità che si attribuisce alle madri è quella di non aver avuto relazioni, o di averle interrotte “per la felicità dei figli”: le madri spesso diventano portatrici di ‘maternità’ più che di ‘identità di donne’, assecondando in questo e fecondandola, l’identità maschilista.
A questo punto mi viene in mente la pagina bellissima della lettera al figlio di Sibilla Aleramo di “Una donna”, che magari farà, chissà? Parte del mio oggetto (ricordatemelo!!!).
In questo sta la viltà che spesso Mari ha rimproverato a sua madre: nelle forti violenze psicologiche che lei subiva (quel “chinare senza amore la testa”?). Sente di avere avuto con la madre un approccio forse troppo severo, pensando, contrariamente a quanto ritenesse la sorella, che quelle della madre non fossero state scelte ma condizionamenti.
Quel “Sopravvivete! Pensate a voi!” della penultima strofa, la madre glie lo ha detto un sacco di volte, ma poi in realtà lei non lo applicava a se’ stessa: la donna fa prevalere la paura per il figlio e blocca la parte di se’ più libera, fa emergere una parte di se’ atavica, quella protettiva.
“E’così che vi appartiene questo mondo: fatti fratelli … dal rifiuto profondo a essere diversi: a rispondere del selvaggio dolore di essere uomini”: è da questo dolore dell’ultimo verso che le madri vogliono tenere lontani i propri figli.
Mandana, che era l’unica madre presente –le altre eravamo Lola, Adelaide, Mari ed io- nel ricordare come fosse vissuta in simbiosi con sua madre, che era molto giovane quando l’ha avuta, riflette sul fatto che all’atto della maternità il corpo produce un ormone particolare che dà quell’istinto di protezione verso il figlio.
“Quanto c’è di lei in me, quanto del suo carattere non voglio” Mari dice. “voglio solo aprire uno sguardo sull’abisso. Su mia madre”.
Chiudo qui il report. Riporto l’altra poesia di Pasolini ricordata da Mari, che tra l’altro in un passo famoso del film “I cento passi” Beppe Impastato legge a sua madre dopo esser stato rinnegato dal padre.
Beppe Impastato. Pier Paolo Pasolini. Entrambi morti uccisi…
Supplica a mia madre
di Pier Paolo Pasolini
E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…
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