sabato 6 dicembre 2008

Sexyspot generation articolo del settimanale "La Repubblica delle Donne"

Sessista e stereotipata: il Parlamento europeo boccia la pubblicità in tv. Ma il video italiano resta affollato di casalinghe felici e distinti manager
di Gina Pavone


Le patate le comprano le donne!”. Il marketing televisivo le considera una merce di pertinenza femminile. Sarà forse l’ambiguo gioco di parole a incoraggiare i pubblicitari a puntare sulla specializzazione di genere, per spingere all’aquisto dei tuberi. Di fatto, in questo spot di successo, il sacchetto di patate alla fine vola addosso a un tizio frastornato, a bocca aperta: pare non abbia capito perché lui non va bene per sceglierle. Negli spot spopolano le immagini di belle casalinghe sorridenti tra distese di lenzuola bianchissime: un luogo comune impresso da anni nell’immaginario collettivo. Come l’uomo sempre impeccabile che guida compiaciuto auto potenti. Secondo il Parlamento europeo, però, questo modo di comunicare va superato. Così a settembre ha approvato a larga maggioranza una risoluzione per l’eliminazione degli stereotipi di genere nella pubblicità. Perché influiscono sulla società, sui rapporti tra le persone, non solo sui consumi. «La pubblicità e il marketing creano cultura anziché esserne semplicemente il riflesso», si legge nella relazione curata dall’europarlamentare svedese Eva-Britt Svensson. E contribuiscono al mantenimento delle disuguaglianze tra i generi: retribuzioni, professioni, ruoli di dirigenza, divisione dei lavori domestici. E se il marketing ha la sua responsabilità, da noi anche la tv deve entrarci qualcosa, con la questione dei ruoli.

Patria di veline e vallette coinvolte anche in qualche scandalo, l’Italia riesce a conquistarsi l’ultimo posto in Europa sulla questione parità, secondo la classifica 2007 Gender Gap stilata dal World Economic Forum. Ultimi in Europa, e nelle retrovie, anzi forse pure peggio, se consideriamo la graduatoria su scala mondiale: su 128 nazioni, siamo 84esimi. Questa distanza tra uomini e donne si ripercuote anche nella scelta di che materie studiare. Secondo uno studio americano della Northwestern University, nelle società dove i ruoli di genere sono più rigidi le femmine vanno meglio nelle materie umanistiche, e i maschi in quelle scientifiche. E i “test Pisa” elaborati dall’Ocse per valutare il rendimento scolastico mostrano per la matematica poca o nessuna differenza nei Paesi Scandinavi, mentre è maggiore, per esempio, in Turchia. «Uno stereotipo è come una lente attraverso cui guardiamo la realtà», osserva Bruno Mazzara, docente di psicologia dei consumi e della pubblicità a Roma, «ci fa vedere alcuni aspetti e ne occulta altri. Quando si sedimenta in una cultura, diventa normale interpretare la realtà attraverso quella distorsione». Ci si abitua, ai luoghi comuni. Si assorbono e ci si comporta di conseguenza. Non meno frequenti degli spot a base di ruoli di genere, sono quelli sexy, che puntano sull’anatomia, principalmente femminile, usata per promuovere di tutto.«Un’abbondanza martellante che rende normale e quotidiana la riduzione del corpo a oggetto», sostiene Catiuscia Marini, deputata al Parlamento di Strasburgo nel gruppo dei socialisti europei.

«Gli spot hanno un altissimo potere persuasivo, in particolare su bambini e adolescenti, perché ci trovano modelli da imitare», osserva Francesca Romana Puggelli, che insegna psicologia sociale a Milano e Pavia, autrice del libro Spot generation (Franco Angeli). «Nel contesto odierno di crisi delle figure tradizionali, ai giovani resta solo la televisione, e da lì assorbono tutto, indistintamente. Anche gli eventuali stereotipi che contengono: e ce ne sono tanti», sottolinea. «Non solo nelle pubblicità per adulti, ma anche, per esempio, in quelle dei giocattoli, dove di solito i bambini sono rappresentati in movimento, all’aperto e vestiti in modo più differenziato rispetto alle bimbe, spesso bionde, coi capelli lunghi, con abiti dai colori tenui. Quasi sempre si trovano in luoghi al chiuso e la musica che accompagna gli spot è più soft, rispetto a quella scelta per i maschi». Particolari che finiscono per indicare chi starà dove, «qual è il posto per l’uomo e quale per la donna», osserva Puggelli. «Certo, ci sono anche casi meno scontati, ma sono rari. Di solito la pubblicità parla a molti, non a pochi. È fatta per raggiungere un pubblico più ampio possibile, quindi mostra aspetti conosciuti, che tutti possono capire senza alcuno sforzo cognitivo. Per questo mantiene lo status quo: la pubblicità non anticipa i tempi, piuttosto di solito rimane un passo indietro». E si autoalimenta.

Se in Europa si discute di sessismo nei messaggi pubblicitari, cosa dire, da noi, della televisione in generale? È affollata di veline, letterine, sexy girl con costumi succinti e balletti allusivi che sono ormai dilaganti nella tv generalista, nei programmi di intrattenimento a qualsiasi orario. Al pubblico piace, il pubblico apprezza, si dice. Sottinteso, il pubblico maschile. Però nel rapporto 2008 di Censis-Ucsi sulla comunicazione, salta fuori invece che il 73% degli intervistati cita la volgarità come difetto principale proprio della tv generalista, quella per tutti. Nel 2006 la Società italiana di pediatria ha pubblicato uno studio che è stato definito scioccante, come se nessuno si fosse accorto della piega che stavano prendendo le cose: tra le dodicenni intervistate, alla domanda «cosa vuoi fare da grande?», al primo posto c’era la velina. Al secondo, un “non so”. L’anno scorso invece la velina è stata sostituita da un più versatile “personaggio famoso”, si legge nel rapporto.Mentre i bambini sognano in massa di diventare calciatori. Nello stesso anno il Censis ha pubblicato uno studio approfondito e specifico dell’immagine femminile nella comunicazione, intitolato Women and Media in Europe.

«La donna prevalente in tv è quella dello spettacolo, mentre professioniste o intellettuali hanno un po’ di spazio solo nelle fiction», spiega Elisa Manna, responsabile del settore cultura del Censis e tra le curatrici del rapporto. «Ci sono solo donne bellissime, giovanissime, perfette, sempre inquadrate con una certa tendenza al voyeurismo». Niente anziane, pochissime quelle di mezza età, tutte sempre di classi sociali agiate, e mai disabili. «Modelli irreali, e non solo nei programmi d’intrattenimento. Anche nei telegiornali la figura femminile si alterna tra un’alta attenzione nella cronaca nera e le modelle delle sfilate, spesso introdotte sul finire dei tg come alleggerimento: un’altalena assurda», osserva Manna. In effetti, numeri a parte, la situazione è davvero a portata di telecomando. Così, giusto un anno fa, in Parlamento erano state presentate due mozioni, per altro bipartisan, proprio sulla questione dell’immagine femminile in tv. Si chiedeva, in sostanza, di far passare non solo il corpo, ma anche il punto di vista femminile, farle anche parlare, le donne. Magari fare spazio alle varie professioniste, in modo da offrire modelli culturali interessanti per i più giovani.

Mozioni rimaste entrambe lettera morta. «Certo che il vostro Paese è terribile », chiosa senza mezzi termini Florence Montreynaud, attivista di “La meute”, rete francese che dal 2000 si occupa di sessismo nella comunicazione e nel marketing. «Noi invece protestiamo, facciamo volantinaggio davanti ai grandi magazzini, chiediamo di non comprare giocattoli e oggetti pubblicizzati in maniera scorretta, scriviamo ai produttori. E di solito ci ascoltano, pure le multinazionali, che temono la nostra pubblicità negativa », spiega. «Ma chiediamo anche l’intervento normativo della politica, perché solo la legge può proteggere tutti, anche i più deboli». Inoltre organizzano due premi: uno allo spot peggiore, l’altro al migliore. Un po’ quello che in Spagna fa l’Observatorio andaluz de la publicidad no sexista, il quale raccoglie segnalazioni di cittadini sui contenuti offensivi degli spot. Risultato: la maggior parte delle missive riguarda i giocattoli e i loro spot. «Il problema con gli stereotipi è proprio che si comincia presto», afferma Puggelli.

Il mese scorso in Svezia il comitato etico ha richiamato una nota marca di giocattoli per i contenuti stereotipati di giochi e pubblicità.Su Internet la notizia ha ricevuto qualche attenzione anche in Italia, ma quasi sempre con toni ironici, canzonatori. L’iniziativa è stata anche bollata come roba da femministe ipercritiche. Ma Puggelli sottolinea di non definirsi una femminista: «Non si tratta solo di donne, anche per gli uomini si creano schemi rigidi da cui faticano a uscire. La pubblicità è un mezzo potentissimo, andrebbe usato con preparazione e sensibilità». Qualche iniziativa degna di nota ora sembra arrivare pure da noi. L’anno scorso l’ufficio di parità del Comune di Torino ha lanciato una campagna contro i brand che sfruttano immagini sessiste per vendere i loro prodotti: sui mezzi pubblici e in città c’era l’immagine di una ragazza in una vaschetta cellofanata, e un enorme codice a barre sopra.

Quest’anno, invece, è partita una campagna, “La parità moltiplica le opportunità. Per tutti”, con uno spot trasmesso a livello nazionale. Nell’attesa che arrivi anche l’Europa: «La risoluzione del Parlamento europeo», spiega Marini, «è un documento di indirizzo politico con cui si incoraggiano alcune istituzioni, e gli Stati membri, a prendere provvedimenti seri per la rimozione degli ostacoli che impediscono la realizzazione dell’uguaglianza tra i generi. Si dice soprattutto di fare attenzione ai messaggi indirizzati ai più piccoli, e anche all’uso delle modelle di magrezza insalubre. Inoltre si parla dell’istituzione di specifici organismi nazionali per il monitoraggio dei contenuti discriminatori delle pubblicità. Tutto questo non ha solo un senso negativo, punitivo: anzi, nella risoluzione si parla di premi a pubblicità che abbiano messaggi positivi».

1 commento:

Valentina ha detto...

Se vi ci scappa leggete "Ancora dalla parte delle bambine", di Loredana Lipperini, ed. Feltrinelli. E' la ripresa (2007) del vecchio libro di Gianini Belotti. Come lettura dei modelli sociali è abbastanza lucida, lega parecchie cose insieme.