giovedì 3 febbraio 2011
Il disastro antropologico
Come definire altrimenti il periodo che l’umanità sta attraversando, il periodo che stiamo vivendo, lo scempio a cui stiamo assistendo, la degradazione dell’umano a cui ci stiamo abituando? E, ancora una volta, la questione si esprime con la consuetudine della reificazione dei corpi e, in particolare, del corpo femminile. Il corpo reificato diventa merce, oggetto di consumo, moneta di scambio e, come tale, alienabile. Ogni cosa ha un suo posto. Il problema si pone nel momento in cui il “posto” diventa l’immaginario strutturando uno stile di vita, un modello culturale, una modalità di pensiero. E si pone nei termini, ancora una volta, di distinzione dei ruoli, modalità relazionali basate sull’opposizione e la prevaricazione piuttosto che sulla condivisione e la solidarietà. È come se fossimo rimasti intrappolati nella gabbia hegeliana del servo/padrone. È una relazione asimmetrica tra chi agisce il potere e coloro su cui viene agito. E, ancora una volta, l’esercizio del potere si esercita sulle donne, il diverso per antonomasia. L’elaborazione, resa possibile dalla presa di parola di molte donne, di una soggettività indipendente che si autodetermina e si esprime liberamente, ha portato alla consapevolezza che l’autorità per intervenire sulla società e cambiare il modello culturale fallologocentrico sia in mano alle donne. Per quanto onorevolmente molti uomini abbiano condiviso e condividano questo percorso rivoluzionario, il bandolo sta in mano alle donne. Perché la trasformazione non può che partire da me. Ora, di fronte al puttanaio che (certo non lo scopriamo oggi ma ora si impone violentemente sulla scena) occupa le stanze del potere, dobbiamo chiederci dov’è finito tutto il lavoro fatto negli ultimi 40 anni? Tutto il lavoro di costruzione di sé a cui molte donne si dedicano, muovendosi in un orizzonte di senso per sé e non per la smania del potere? Il quadro è preoccupante ma occorre guardarlo come un’opportunità perché è dalla crisi che nascono le opportunità più ghiotte. Parlo dell’opportunità per continuare il cammino intrapreso e portarlo ad una svolta, per fare un passo ulteriore nella conquista di un immaginario non costruito su modelli di genere che calcano i contorni del potere assumendone forme e contenuti. Possibile che, ancora oggi, ci siano donne che non riconoscono la dimensione oggettuale in cui si lasciano intrappolare illudendosi di condurre il gioco? Possibile che sia ancora il caso di ribadire che prestarsi ai giochi del potere significa rinunciare a essere il soggetto della propria vita e assumere come naturale un modello che mortifica la dignità dell’essere?
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