domenica 17 ottobre 2010

giornata d'aprile in autunno

Il 28 aprile Ginestra, così la chiamo, presenta il suo oggetto.
L’ha scritto. Lo legge con gran velocità. Sostanza che brucia. Il foglio è un appiglio per non perdersi:

"Me from Myself - to banish -
Had I Art -
Invincible My Fortress
Unto All Heart -
But since Myself - assault Me -
How have I peace
Except by subjugating
Consciousness?
And since We're Mutual Monarch
How this be
Except by Abdication -
Me - of Me -? Me da Me stessa - di bandire -
Avessi l'Arte -
Invincibile la Mia Fortezza
Ad ogni Cuore -
Ma poiché Io stessa - assalto Me -
Come aver pace
Se non soggiogando
La consapevolezza?
E poiché siamo Reciproci Monarchi
Come far questo
Se non Abdicando -
Me - da Me -? (E. Dickinson)


Quando Hanna Arendt parlò della sapienza di partire da sé si riferiva a una fatalità, un caso nel destino dell’individuo da cui partire per riconoscere negli eventi di un'esperienza singolare le cifre di un’appartenenza al mondo. Scrive Chiara Zamboni della Diotima: “Si parte dai sentimenti e dalle contraddizioni vissute in prima persona, perché saperle vedere e interpretare è un modo di restituire la verità del mondo al mondo stesso. Da una parte si valorizza molto il vissuto concreto, dall'altra non se ne fa un fatto personale ma un segnale del mondo in cui viviamo”.
Il mio caso, la mia fatalità attraverso la quale ho imparato a leggere la mia presenza nel mondo è il percorso tortuoso di un adolescente “malata”. Interessante è l’interpretazione della stessa Zamboni sulle posizioni di Merleau – Ponty in riferimento alla fedeltà del pensiero al corpo. Il pensiero dunque come qualcosa che è già presente nelle esperienze fatte dal corpo e non si aggiunge a esse: ne è il lato invisibile e avvia ad un processo di espressione e pratica di vita.
Partendo da me dunque, mentre il mio corpo di donna fioriva durante gli anni dell’adolescenza, un ospite inquietante ne cambiava i parametri di sviluppo. All’età di 17 anni il verdetto di uno staff medico inglese decretò la mia malattia. [...] Le donne sono le più colpite. Questo particolare mi sembrò indiscutibilmente ironico all’epoca. Il mio essere donna non ancora del tutto compreso e, non ancora del tutto accettato mi era posto di fronte con tanta violenza.
Come tante bambine cresciute in ambienti principalmente maschili l’accettazione del corpo che si trasforma secondo forme e lineamenti femminili è stato un campo di estenuante contrattazione tra me e me stessa.
I primi passi nel mondo femminile, il confronto con le amiche, gli occhi di mia madre, il primo amore, le delusioni, le lotte ideologiche in famiglia e a scuola, mente e corpo si evolvevano a una velocità vertiginosa e ne ero inebriata e sconvolta.
Il mio mondo mi piaceva disperatamente e dentro di me avevo la forte percezione che quel modo di vivere il reale, quel modo di pensare il mondo passasse attraverso il mio essere donna. L’oppressione di genere che ho sempre percepito intorno a me, mi consentiva delle profonde relazioni empatiche nei confronti di qualsiasi tipo d’ingiustizia sociale e mi dava lo stimolo a una precoce militanza studentesca: ogni adolescente cui bolle il sangue nelle vene ha vissuto momenti caratterizzati da tale ardore, la sensazione di essere nel giusto, di voler cambiare il mondo, di essere immortali…
Ben presto però il mio mondo ideale di grandi ideali si è dovuto scontrare con il reale e dalla sintesi di questi due aspetti è iniziato il mio percorso di presa di coscienza dell’essere donna. Il mio essere donna passava ora attraverso un corpo, un corpo malato.
Un corpo che divenne campo di studi e sperimentazioni, centro di dibattiti su pratiche farmacologiche tradizionali o alternative. Senza opporre resistenza mi sottoposi a esami e cure mentre silenzioso cresceva in me il germe della rabbia e del rifiuto di quel corpo inadatto a vivere secondo i miei parametri. Il mondo scientifico si è mostrato a me in tutta la sua magnificenza sterile e razionale: sale asettiche e figure facilmente associabili al contorno ambientale si sono susseguiti in una danza frenetica che di tutto si preoccupava fuorché del fatto di avere davanti una ragazza di 17 anni, che contrattava crescita e sviluppo con malattia e degenero. Con il tempo la scissione tra mente e corpo malato è stata totale. Non mi apparteneva e non lo accettavo. Non accettavo il concetto di avere una malattia, di essere in qualche modo difettosa, non accettavo gli sguardi dei medici sul mio corpo nudo, non accettavo nessun tipo di protesi tecnologica che invadesse la mia carnalità.
Con il passare degli anni e grazie ad aiuti mirati il rapporto col mio corpo e l’accettazione della mia condizione sono diventati più gestibili. Da questi anni di profonda sofferenza sono seguite una serie di osservazioni che a partire dalla mia esperienza personale spero di poter ricongiungere a mondo. La prima considerazione necessaria riguarda ovviamente un approccio diverso verso la paziente da parte del sistema sanitario. Trattamenti e cure devono tenere conto della specificità del corpo femminile, sia da un punto di vista prettamente farmacologico sia da un punto di vista psicologico. Il paragone inevitabile con il sistema sanitario inglese, con il quale mi rapporto annualmente, evidenzia le profonde lacune di cui soffre il nostro paese non solo per ciò che riguarda il supporto alla ricerca e gli innovativi approcci farmacologici, ma anche per quel che costituisce il supporto psicologico nell’affrontare una malattia che è condizionato dalle ovvie differenze di sesso che di genere.
Da qui una serie di riflessioni si fanno necessarie: innanzitutto l’urgenza di una medicina di genere che consideri la peculiarità del corpo femminile all’interno dei trattamenti sanitari sia a monte che a valle della filiera sanitaria. Con l’espressione “medicina di genere” s’intende la distinzione in campo medico delle ricerche e delle cure in base al genere di appartenenza, non solo da un punto di vista anatomico, ma anche secondo differenze biologiche, funzionali, psicologiche e culturali. Il problema della medicina di genere nasce dal fatto che gli studi di nuovi farmaci, di nuove terapie e dell’eziologia e dell’andamento delle malattie sono sempre stati condotti considerando come fruitori i maschi. Di conseguenza le cure mediche rivolte alle donne sono compromesse da un vizio di fondo: i metodi utilizzati nelle sperimentazioni cliniche e nelle ricerche farmacologiche e la successiva analisi dei dati risentono di una prospettiva maschile che sottovaluta le peculiarità femminili.
Altro aspetto fondamentale a mio parere è l’inserimento all’interno della politica delle donne dell’acquisizione di competenze tecnologiche e scientifiche; il superamento del pregiudizio che vede donna e scienza in antitesi. Come la filosofa statunitense Donna Haraway propone nel suo Manifesto Cyborg sarebbe necessaria una ridefinizione della soggettività femminista collegata allo sviluppo di una coscienza critica nei confronti della tecnologia. Il messaggio della Haraway, al di là delle sue visioni fantascientifiche, è chiaro: acquisire delle competenze tecnologiche da utilizzare a favore delle donne. Da qui segue una rilettura in chiave femminista/femminile dei paradigmi tecnologici che devono diventare strumenti di e per le donne.
Ultimo aspetto non trascurabile è la necessità di riconsiderare il corpo come elemento centrale all’interno di un discorso di genere: strumento di mediazione tra sé e il mondo, filtro attivo tra il dentro e il fuori. Riportare dunque il discorso del corpo centrale all’interno del dibattito in quanto luogo di rappresentazione e auto rappresentazione del pensiero. La svalutazione del corpo femminile in tanti campi (solo per citarne alcuni, medico, mediatico, relazionale) ostacola il processo di autodeterminazione del pensiero al femminile e su questo bisogna agire, usando il corpo come punto di partenza per una ri - significazione del pensiero e del linguaggio.
“Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia, ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetricia dice non urli, non è mica la prima. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi…le donne hanno più confidenza col dolore del corpo, dell’anima. È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da essere quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, non serve. Trasformarlo invece ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta e ciascuna lo sa” (Concita de Gregorio)”.

Teresa le chiede se in Inghilterra ci sia negli ospedali un approccio di genere. Ginestra risponde che c’è un diverso approccio con il paziente, che ha la possibilità di confrontarsi e di relazionarsi con altri all’interno di gruppi tematici: vivere una gravidanza con..., vivere questa esperienza con...Trovare altre persone con cui confrontarsi l’ha letta come una pratica “al femminile”.
Attraverso cosa è passata l’accettazione? Sicuramente attraverso la consapevolezza prima di essere donna.
Michela domanda cosa aggiunga questo tipo di accettazione alla comprensione della realtà: All’inizio è stato il contrario: era in credito con il mondo. Poi accettarlo le ha dato una capacità di comprendere di più il mondo.
Suggestione di Michela: il “corpo malato” come paradigma del “corpo femminile al cubo”: come se attraverso l’esperienza della malattia riuscissimo a fare una riflessione reale su noi stesse. Ginestra: perché si attua una separazione fra quello che è l’identità della persona e quello che è la consapevolezza di se’. Valeria incalza: è come se il corpo malato di un uomo diventi “donna”. Posto nel territorio di azione di una scienza neutra, il corpo non si ritrova e perde il senso di realtà, l’abitudine al dominio, al potere.

Fa uno strano effetto parlare di ginestre e di aprili in questa giornata autunnale... Così in ritardo ti scrivo. Così il sole chiaro che ci illuminava in aula F lo ricordo e lo serbo.

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