martedì 20 ottobre 2009

riflessioni luisa su oggetto mandana

Non c’ero alla presentazione dell’oggetto di Mandana “Corpo di donna” ma grazie alle parole di Teresa, delicate ma allo stesso tempo dirette, ho potuto provare ad immaginarmi in aula M con le altre.

Cercherò di essere breve, dato che le cose da dire sarebbero tante.

Prima di tutto credo che sia complicato e difficile parlare del corpo della donna in riferimento a due culture (la nostra occidentale e quella in cui Mandana ha vissuto per molto tempo) così lontane e diverse ma con moltissimi elementi in comune. Prima di poter parlare della condizione della donna araba dovrei avere un’idea chiara di quella della donna occidentale ed invece mi sto ancora ponendo mille domande sulla nostra condizione nella società in cui viviamo.

Detto questo credo anche io che una riflessione sul corpo della donna sia cruciale, fondamentale e tappa obbligata per tutti coloro che vogliono prendere coscienza delle problematiche relazionali nel rapporto uomo donna. Diciamolo: il nostro corpo è bello, bellissimo, rotondo, sinuoso, armonico… provoca distrazione e turbamento ed è per questo che, secondo me, è coperto totalmente o scoperto totalmente.

E’ un tentativo degli uomini di ridurre la donna ad un estremo (solo un corpo, o un non-corpo) per farla uscire dalla dimensione di persona che è partecipe della vita sociale e ridurla ad una non-persona. Forse è vero ciò che all’inizio di questo percorso di autoconsapevolezza mi sembrava eccessivo e cioè che gli uomini ci temono e temono il nostro corpo, desiderano esercitare un controllo su di esso (lo coprono o lo scoprono) e desiderano esercitare un controllo anche su questioni prettamente femminili come l’aborto, la gravidanza e così via. Il corpo della donna viene, forse, così controllato anche nella sua funzione riproduttiva attraverso la separazione netta di due tipi di donna che da sempre sono presenti nella mente dei maschi: la donna moglie-madre, un vaso da riempire e da fecondare e la donna-prostituta un vaso da riempire a scrollandosi di dosso ogni responsabilità riguardante il concepimento.
Arrivo ora all’argomento menopausa trattato da Mandana. Mandana dice che la donna in menopausa non trova più una collocazione sociale. In che senso? A quale cultura si riferisce? E’ ancora valido per le donne che entrano oggi nel periodo della menopausa? Non lo so, è un argomento che varrebbe la pena approfondire. Se faccio riferimento alla mia esperienza personale non mi sembra che il parlare di menopausa sia un tabù. E’ vero però che, forse, nell’immaginario collettivo la donna in menopausa assume connotazioni negative. E’ vero anche che sempre più donne in età da menopausa non trovano spazio in tv, però forse qui non c’entra la menopausa ma l’età.

Continuando a scorrere le parole di Teresa leggo che secondo Mandana “l’inizio del periodo fertile è salutato con festeggiamenti mentre non ci sono riti per l’ingresso nel periodo della menopausa”. Anche qui Mandana si riferisce all’Iran?

A questo proposito vorrei dire due cose:

In Italia la prima mestruazione non è festeggiata, anzi è vissuta con imbarazzo credo. Fino a non molto tempo fa anche la parola mestruazione veniva detta sottovoce oppure si diceva “ quella cosa”, “quell’affare”… In più, per esempio, non molto tempo fa alle donne non era permesso entrare in chiesa nel periodo del ciclo mestruale.
Il motivo per cui la menopausa non è festeggiata non può essere quello per cui comunque la menopausa è indice del fatto che siamo invecchiate? Non si può collegare tutto alla paura della morte di cui l’invecchiamento può essere un primo sintomo? Inoltre, a quanto ne so, con la menopausa giungono anche complicazioni a livello fisico ed ho avuto modo di conoscere donne che grazie all’utilizzo di farmaci hanno potuto ritardare l’arrivo della menopausa, ritardandone così anche gli effetti negativi.
Anche gli uomini sono ossessionati dall’essere efficienti dal punto di vista riproduttivo, infatti mi sembra che anche il parlare di andropausa possa essere considerato un tabù.

Mandana ha infine toccato un argomento, già trattato da Lola, sul quale riterrei opportuno soffermarci nuovamente. Mi riferisco al fatto che troppo spesso la medicina cura il corpo delle donne nello stesso modo in cui lo farebbe con gli uomini. Questa estate ho subito anche io le conseguenze di ciò: mi è stato prescritto un antibiotico non considerando il fatto che nelle donne, nella gran parte dei casi, porta al verificarsi di altre problematiche, perciò sono stata costretta ad un’ulteriore cura. Vorrei sapere se ci sono degli sviluppi in proposito e se ci sono medici sensibili a questo tipo di problematiche. Perché non riparlarne?

Per quanto riguarda l’ultima parte del report di Teresa non posso far altro che ammirare Mandana per il coraggio che ha avuto e ringraziarla per aver condiviso con noi un’esperienza così difficile ed intensa.
Vorrei concludere citando due righe estratte dal testo di una ragazza di Lettere e Filosofia di Siena che ho letto nel libro di “Cera di Cupra” (quello relativo al concorso, per intenderci) e che mi sembra possano riassumere bene la problematicità e la complessità del rapporto fra noi donne e il nostro corpo. E’ vero, è forse dal prenderne consapevolezza che può prendere vita il percorso attraverso il quale ogni donna pensa a se stessa in quanto tale, in un contesto sociale.

L’autrice del testo scrive a proposito del periodo della sua adolescenza:

“Cos’ero a quell’epoca? Non sapevo camminare sui tacchi ma portavo il reggiseno, avevo l’acne, e una volta al mese mi riempivo di antidolorifici per affrontare quel curioso avvenimento fisiologico che mia nonna nominava in diciassette modi diversi e sempre con un’aria da cospiratrice. Il fascino da ninfetta era toccato tutto alla maliziosa Lolita Nabokov, lasciando noialtre, tredicenni non sublimate dalla fantasia letteraria, a guardarci perplesse di fronte allo specchio, chiedendoci cosa non andasse. E perché mai la gonna che ieri stava a pennello ora era evidentemente troppo corta, e la t-shirt troppo stretta; perché quel corpo, con il quale avevamo vissuto felicemente più di una decina d’anni, se ne stava lì a darci battaglia. Senza trovare puntualmente una risposta. Poi, con gli anni, l’abbiamo trovata. (…) Passando per decine di riti di passaggio, con un occhio sempre puntato sul riflesso delle vetrine per vedere se tutto il lavoro fatto (…) fosse ancora lì, abbiamo capito che tutto quel piangere, quel provare vestiti, tutto quell’amare inutilmente e quel confidarsi con le amiche, quei primi disastrosi tentativi di trucco, quel primo bacio, quella prima volta, quell’essere sempre sottovalutate, tutto quel tempo, passato in buona parte a tentare di dimostrare qualcosa a qualcuno, o magari anche solo a noi stesse ci aveva trasformato. In qualcosa di doloroso e meraviglioso e diverso ed inspiegabile. Pure da noi, ormai così occupate ad esserlo da non essere più interessate a definirlo”.

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