sabato 21 marzo 2009

"In Turchia le donne scendono in campo" Repubblica 21 marzo

Paura, fughe, diffidenza
in Turchia le donne in campo
Parte il campionato di calcio di serie A e B al femminile ma le difficoltà culturali da superare sono tante. Il racconto di una ragazza: "Ho una grande passione ma se mi vedono giocare, nel mio paese mi arrestano"
di ENRICO SISTI
ROMA - Pazzi di calcio, i turchi. Ma non abbastanza da riempire lo stadio quando giocano il Kartalspor e il Gazi Universitesispor. Si picchiano, corrono, segnano, esultano. Gli spalti però restano freddi e vuoti. Spiegazione: in campo ci sono 22 donne, le due squadre giocano in serie A, ma è quella femminile. C'è anche una B.
La novità della federcalcio di Ankara rischia di naufragare prima ancora di diventare una realtà. Un tentativo quasi disperato: "Il calcio è visto come una dimensione unicamente maschile", spiega il tecnico del Marmara, la 30enne Nurper Ozbar, una delle poche allenatrici donne del paese, unica rappresentante del suo genere in tutta Istanbul: "Ogni tanto viene qualcuno a vedere i nostri allenamenti, sta un po' lì e poi, esasperato urla "ma che fate lì, andate a casa a cucinare e a lavare i piatti!"".

Fra qualche giorno, nella zona asiatica di Istanbul, verrà inaugurata la prima moschea costruita da una donna. Provano anche a costruire il calcio per le donne, in Turchia, ma la resistenza culturale è quasi più forte. Architettura religiosa sì, pallone ancora no. E i dirigenti federali ne sono consapevoli. Sperano di emulare il basket e la pallavolo, che vantano campionati già avviati. Senza farsi illusioni. Fra serie A e B, in una nazione che conta più di 70 milioni di abitanti, le donne affiliate alla federcalcio sono soltanto 798, a fronte dei 230 mila uomini. Con un mare di problemi anche logistici da superare. Per andare ad allenarsi, ogni giorno Deniz Bicer, centrocampista del Gazi, 18 anni appena, deve farsi quattro ore di viaggio fra andata e ritorno: "Se dalle mie parti mi vedono toccare un pallone succede il finimondo. E se provo a spiegarli quanto grande sia la mia passione mi arrestano...".

L'esperienza conta. Soprattutto quella di chi ricorda quello che accadde quindici anni, quando in Turchia si cercò per la prima volta di aprire il calcio alle donne: "Fu un disastro". Un disastro con 24 squadre allestite alla buona, con arbitri uomini e un programma di base che non prevedeva retrocessioni perché non c'era nessuna categoria inferiore. Un campionato amatoriale, ultra-sperimentale, che finì nel peggiore dei modi: dopo alcuni anni di vita di margine assoluto il campionato femminile venne cancellato nel 2002 quando un paio di presidenti riuscirono a farsi prendere con le mani nel sacco (i pochi soldi versati dalla già povera federazione usati per rifarsi l'intonaco in casa o per acquistare un'automobile anziché per pagare le magliette alle calciatrici) e qualcuno mise in giro la voce, scandalosa, che in certi spogliatoi vigesse la regola dell'amore lesbico.

"Stavolta faremo tutto con maggiore professionalità", assicura Erden Or, uno dei dirigenti della federcalcio femminile. Bisognerà però convincere l'opinione pubblico che, come in tanti altri campi, anche su un campo di calcio la donna può restare donna anche se esegue un lavoro prevalentemente maschile, o storicamente associato all'uomo e alla sua fisicità: "Molti pensano che, giocando a calcio, una donna diventi un uomo, dentro e fuori". L'opera di sensibilizzazione è iniziata con una serie di incontri col pubblico, in varie città, cui hanno partecipato allenatori (allenatrici), calciatrici, dirigenti federali, psicologi e medici. "La maggior parte delle domande dei partecipanti ai nostri forum sono tragicamente preoccupate, ci sono genitori che chiedono se la loro bambina può giocare a pallone senza rischiare di perdere la verginità, se potrà continuare ad avere le mestruazioni. Ci sono insegnanti di educazione fisica che si rifiutano di lasciare le loro alunne sole con un pallone...".

Le difficoltà non sono solo culturali. Mancano i soldi. La federcalcio turca assiste la serie A femminile con un assegno semestrale che non basta neppure a sostenere le spese di manutenzione dei campi e delle divise da gioco: "Dobbiamo ricorrere a qualche piccolo sponsor, ma anche lì ci scontriamo con l'arretratezza. Soldi per le donne calciatrici? Il più delle volte ci chiudono la porta in faccia e ci ricordano di rispettare il Corano", prosegue Or. Spesso le partite vengono vinte a tavolino perché una squadra non ha sufficiente liquidità per affrontare una trasferta lunga e onerosa (il Kartalspor ha dato forfait contro lo Smirne: sei ore di treno per 15 persone costavano troppo).

Non sempre i media vengono in aiuto. E a volte le trovate propagandistiche si trasformano in boomerang: "Per il logo della nuova serie A avevamo pensato a una ragazza molto attraente (non una calciatrice insomma, ndr) che con le sue lunghissime unghie rosse avvolge quasi interamente un pallone". Non è stata una grande idea. Le tv l'hanno bocciata. "E pensare che nello storyboard originale del video e del set fotografico la ragazza aveva anche i tacchi alti...".

Qualcosa però è cambiato: "Diciamo che adesso, rispetto a dieci anni fa, possiamo contare su un maggior supporto psicologico da parte delle istituzioni", ammette la coach Ozbar, "ma siamo ancora prive di un adeguato sostegno economico". Sono tutte dilettanti con le tasche bucate. Quasi tutti i soldi della serie A turca di calcio femminili provengono dagli stipendi delle ragazze. Se lavorano. "Ma so anche di qualche genitore che, di nascosto, finanzia la passione della figlia".

Qualcosa è cambiato anche nella geografia del calcio femminile. Prima le squadre si formavano solo nelle città più evolute. Ora se ne trovano anche in posti come Hakkari, nel chiuso sud est a prevalenza curda. "E prima o poi vedremo anche la gente sulle tribune". Per ora, l'unica squadra che può vantare uno "suo" pubblico è Gunesspor di Sakarya, poco fuori Istanbul. "Successo è potere e dieci vittorie consecutive, per quanto siano dieci vittorie di calcio femminile, sono potere e per questo fanno comunque notizia", spiega il presidente del Gunesspor Sinan Panta: "All'inizio venivano a vederci in 100. Ora sono 3000". Un passo dopo l'altro: "Adesso vorrei acquistare Onome Ebi, nazionale nigeriana, bravissima e costa ancora poco".

Anche la confessione di una madre può aiutare ad allontanare lo spettro delle convenzioni ed avvicinare il calcio e la moschee al femminile: "All'inizio non volevo saperne, non volevo che mia figlia giocasse", spiega la mamma di Selmin Odabas, ala del Kartalspor. "Temevo che il calcio la facesse diventare un mostro". Invece Selmin è diventata più bella. Ed è finita anche in nazionale. "Adesso suo padre non si perde una partita".

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